C’è qualcosa di profondamente teatrale, quasi pirandelliano, nella politica di Carlo Calenda. L’uomo che vuole rifare il centro, rifondare l’Europa, rifare il Pd (ma da fuori), rifare Forza Italia (ma senza Berlusconi), insomma rifare tutto – tranne se stesso. Dopo essersi alleato con Enrico Letta e con Matteo Renzi – e dopo aver clamorosamente divorziato da entrambi – oggi annuncia di voler costruire un «nuovo centro liberale». L’idea è vecchia (ci hanno provato in tanti, nessuno c’è mai riuscito) ma l’etichetta è nuova: i “volenterosi”.
Chi sono? Un gruppo di ex, post, aspiranti e delusi. Ex renziani, post-berlusconiani in cerca d’autore, pezzi sparsi di +Europa, quel che resta di una diaspora politica che non ha trovato casa né a sinistra né a destra. Calenda li chiama a raccolta per una battaglia di civiltà: «Uniamo chi crede in un’Europa più forte, anche militarmente, contro i populisti che gridano al guerrafondaio».
Il nemico è chiaro: Giuseppe Conte, il leader del Movimento 5 Stelle, definito più volte un «cialtrone» e ora additato come il portabandiera del pacifismo grillino, un’ideologia che per Calenda sfiora la codardia. Ma anche Matteo Salvini, con le sue oscillazioni filo-putiniane e i suoi no alla difesa comune, entra nel mirino.
Bisogna riconoscere a Calenda un merito importante. Quello di essere stato, tra i leader politici italiani, quello che ha difeso sin dal primo momento, e con più coraggio ed energia, una verità impopolare, e cioè che il riarmo dell’Unione europea non è una bestemmia ma una necessità, alla luce della crescente minaccia putiniana e del riposizionamento di Donald Trump sullo scenario mondiale. Una verità che Elly Schlein ha avvolto in un velo di ambiguità, e la stessa Giorgia Meloni deve tenere sottotraccia, per non rompere con il più filo-russo di tutti, Matteo Salvini.
Eppure una domanda semplice e chiara va fatta, a Calenda: qual è il suo piano per vincere le elezioni e andare al governo? Perché in Italia, come lui stesso denuncia con puntiglio quasi ossessivo, vige un bipolarismo imperfetto ma inesorabile. Da una parte Giorgia Meloni e la destra, dall’altra il fronte variegato di opposizione dove convivono Pd, 5 Stelle, +Europa e una selva di sigle minori. Calenda non vuole avere a che fare con nessuno dei due poli. Non con Meloni, per evidente incompatibilità ideologica, e neppure con Conte, considerato un’anomalia democratica da rimuovere più che un interlocutore. E il Pd? Solo a patto che rinneghi ogni alleanza con il M5S.
Questa intransigenza lo condanna però a un limbo politico. Troppo strutturato per fare il battitore libero, troppo solitario per costruire alleanze. Forse, più che ai “volenterosi”, Calenda dovrebbe rivolgersi ai “realisti”. A quelli che sanno che la politica è anche compromesso, che il purismo centrista è una bella favola da convegno ma una pessima strategia elettorale. Che il bipolarismo non si aggira con le interviste o i podcast, ma con alleanze, programmi comuni, sudore parlamentare.
Se davvero crede nella sua visione – e non c’è motivo di dubitarne – dovrebbe spiegare come trasformarla in potere. Perché altrimenti, il rischio è quello di diventare il Savonarola del Terzo Polo: tanta coerenza, poca influenza. E alle elezioni, purtroppo per lui, non si vince con i “volenterosi”. Si vince con i voti. E con le risposte. Soprattutto a quella maledetta domanda: con chi?