Gli autocrati del mondo aggiornano l’agenda bellica in funzione del loro potere in patria

La “guerra mondiale a pezzi” ha compiuto un altro salto in avanti. L’attacco preventivo di Israele all’Iran ci fa piombare in uno scenario di tipo hobbesiano nel quale l’idea negoziale sembra essere stata cancellata in toto.

 

Il realismo politico non ha mai smesso di descrivere la geopolitica nei termini del dominio dei rapporti di forza, ma oggi l’incendio divampa di fronte a un Occidente che pare avere smesso anch’esso di credere nell’ordinamento internazionale liberale. E molto di questo caos globale rimanda alla conquista della Casa Bianca da parte di Donald Trump che, a dispetto dei suoi proclami (finto)pacifisti, si conferma come una sorta di Joker planetario. Un seminatore di instabilità che, in questa vicenda iraniana, ha giocato secondo lo schema good cop e bad cop, anche se qualche diversità di vedute con Benjamin Netanyahu in effetti si era verificata.

 

A scanso di equivoci, il regime degli ayatollah rappresenta una dittatura teocratica spietata, che manovra i suoi proxy per destabilizzare il Medio Oriente e qualunque zona del mondo sulla quale riesca a estendere i suoi tentacoli. Un regime fanatico, corrotto, inefficiente e ferocemente nemico del proprio popolo, come ha mostrato la violentissima repressione del movimento “Donna, vita, libertà” e, da sempre, di ogni manifestazione di dissenso. Così come l’esistenza della Stato ebraico non deve essere messa in dubbio. 

 

Ma Israele è oggi ostaggio degli interessi personali – e privati – del suo premier e del messianismo suprematista dei leader dei partiti ultraortodossi (peraltro strenuamente impegnati, come sempre, a esentare i loro elettori dal servizio militare). Di qui, l’apocalisse scatenata a Gaza – che ha bruciato gran parte del patrimonio di solidarietà che si era costruito attorno al Paese dopo l’“ottobre nero” subito da Hamas – e il conflitto diretto con Teheran, dalle conseguenze che saranno devastanti per tutti, quali effetti dei cinici calcoli di sopravvivenza al potere di questa classe dirigente.

 

Alcune delle destre ultranazionaliste e iperpopuliste al potere hanno scelto di schiacciare il bottone di innesco della guerra in una chiave che, come molte altre volte nella storia, guarda soprattutto alle faccende domestiche. Vale per Netanyahu – criminale di guerra impegnato a presentarsi quale vittima dell’“Asse del male” –, come per il rinnovato campione del fascismo russo Vladimir Putin. La guerra come prosecuzione della politica interna (reazionaria) con altri mezzi.

 

A spalancare la “finestra di opportunità” – e, adesso, anche le porte dell’inferno – è il trumpismo senza freni dell’ex tycoon in questo secondo mandato, animato, come ha scritto Ian Bremmer, dalla perdita di interesse per tutto quello che non gli dà risultati immediati. E, soprattutto, da un’incontenibile voglia di rappresaglia nei confronti dei “nemici” di ogni ordine e grado, e dalla volontà manifesta di decostruire lo Stato di diritto e ogni garanzia costituzionale per rendere gli Stati Uniti un’ulteriore pseudo(democrazia) illiberale.

 

Un egopolitico annoiato e narcisista che ha soppresso la funzione di garanzia dell’ordine globale svolta finora dagli Usa, contribuendo in maniera decisiva a riportarci al far west e, giustappunto, a uno stato di natura hobbesiano su scala planetaria.

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