Opinioni
18 luglio, 2025Puntare soltanto sul dossier del Ros è fuorviante. Nell’anniversario della strage, ricordiamo il contesto
I solato, ignorato. Tradito. Ucciso. E poi tradito ancora. Per 33 anni. È una gigantesca perpetua impostura quella perpetrata ai danni della memoria di Paolo Borsellino. Iniziata, nel nido di vipere del Palazzo, ben prima del furto dell’agenda rossa, in mezzo ai resti fumanti della carneficina di via D’Amelio. Seguita nel buio di un’indagine sbilenca.
Schiantatasi sulle bugie di Scarantino, il pupo vestito da pentito. Protrattasi nella rincorsa a verità di comodo. Continuata nel vortice di carte mischiate a proteggere carriere, complicità, connivenze e silenzi inossidabili. Proseguita ora nell’obliquo tentativo di revisionare l’intera storia. Accade in un’Antimafia che ha per suggeritori due ex ufficiali del Ros, Mario Mori e Giuseppe De Donno. Ovvero i protagonisti dell’opaca stagione negoziale che anziché fermare le bombe mafiose, le moltiplicò, nella convinzione dei boss di incassare il dividendo dell’orrore. La giustizia ha escluso che fu reato trattare con l’ex sindaco emissario dei Corleonesi, Vito Ciancimino.
Ma la sentenza non cancella il dubbio che Cosa nostra ne ricavò la certezza di una sicura remunerazione dei propri sforzi al tritolo. Una strategia terroristica iniziata il 23 maggio del 1992 a Capaci, proseguita il 19 luglio in via D’Amelio e poi esportata in Continente con le bombe di Firenze, Roma e Milano. Di questo l’Antimafia si occupa meno. Al contrario della procura di Firenze che indaga su Mori. Della coppia di ex militari, ai commissari interessa di più il dossier mafia e appalti. Si tratta di un rapporto investigativo sugli interessi diretti dei padrini nel controllo delle opere pubbliche.
D’intesa con alcuni politici. Il grosso dei nomi, a dire il vero, circolava a beneficio dei giornali, quasi ce ne fosse un secondo, più completo, di dossier. Presentato nel 1991 alla procura di Palermo, diretta allora da Pietro Giammanco, il rapporto fu messo in sonno, poi ripreso, scandagliato, in parte archiviato, e sviluppato con l’impulso dello Sco, fino a processi e condanne. Nel vortice degli stracci di un rinnovato interesse, pure la procura di Caltanissetta si incarica di riscrivere come andò la tortuosa vita di quel fascicolo. Borsellino, è vero, si interessò al rapporto. Ma di sicuro non era l’unica fonte della sua curiosità sul tema. E nulla seppe del dialogo aperto con Ciancimino. Sapeva per conto proprio degli affari siciliani della Calcestruzzi di Ravenna, come del legame tra Vittorio Mangano e Dell’Utri.
Sarà comodo per qualcuno, ma ricondurre la strage solo al dossier del Ros rischia di non far vedere il contesto. Quel grumo in cui affonda il passaggio tra la prima e la seconda Repubblica, mentre Tangentopoli scompaginava l’arco costituzionale, i partiti erano allo sbando e la mafia giocava la sua partita, salutando poi con la tregua il nuovo corso del Paese che da lì a poco si sarebbe inaugurato. Ma anche soltanto a volere stare stretti sui 57 giorni tra Capaci e via D’Amelio, ci sarebbe stato molto da approfondire. E in parte si potrebbe ancora, almeno fino a quando qualcuno dei protagonisti di allora è ancora in vita. Borsellino ebbe modo di sollecitare che i colleghi di Caltanissetta lo ascoltassero per fargli dire ciò che sapeva intorno alla fine di Giovanni Falcone. Nessuno lo chiamò. Non ci si è sforzato di trovare quel «qualcuno» che lo aveva «tradito» di cui parlò.
Né, quando era possibile, si approfondì il perché il procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco gli impedì di indagare sul capoluogo, concedendoglielo solo con una telefonata all’alba del giorno della strage. Né perché non ci fosse neppure un divieto di sosta sulla via della morte a proteggere l’uomo più esposto e più solo d’Italia. E il più tradito.
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