Opinioni
29 luglio, 2025Il dissenso fu criminalizzato con denunce e arresti, ma le analisi nei dossier di allora sono ancora valide
L’urlo di chi ha gridato "No Expo 2015" è sopravvissuto per un decennio e in questi giorni, fuori dalla Procura di Milano, risuona parecchio. Infatti «uno sparuto gruppo di milanesi», già nel 2011, scriveva una lettera al Bureau International des Expositions, responsabile di decidere dove si tengono gli Expo, chiedendo di escludere Milano. Il Comitato No Expo, dal sottotitolo “Debito, Cemento, Precarietà”, aveva previsto con lucidità come l’evento fosse la prima vera elaborazione del “modello Milano”: una proposta suicidaria di città venduta come progresso. All’inaugurazione, il 1° maggio, la città si riempì di migliaia di manifestanti; ne seguirono sgomberi e arresti con accuse gravissime. Una giornata che si è cercato in ogni modo di ridurre e criminalizzare, ma che chi l’ha vissuta la ricorda come un anelito immaginifico, una storia possibile.
Quelle voci raccontano come, già nel 2007, il sodalizio Moratti-Prodi aveva visto nel mega-evento un’occasione per «rilanciare la città» e il «modello lombardo». Sul dossier “Exit Expo 2015”, prodotto dal Laboratorio Off Topic e dal comitato No Expo, si legge: «In un’epoca segnata dall’istantaneità dei flussi comunicativi, c’è ancora bisogno dell’Expo? Se questo non trova una diversa funzione storica e sociale non rischia di divenire un contenitore vuoto e quindi in balia degli interessi speculativi?». Nel documento si analizza la tendenza di occasioni come le Olimpiadi, i Mondiali e le Esposizioni Universali, per nascondere scheletri nell’armadio, fare rebranding e speculare. Citavano infatti il caso della Spagna post-franchista, dell’Argentina della giunta militare e della Cina odierna.
Le migliaia di persone che si opponevano al mega-evento “No Expo” riconoscevano che questo nasceva da un deficit di democrazia e da un grosso conflitto di interesse: nessun organo elettivo e di rappresentanza democratica. Per esempio, spiegano in un dossier, «la scelta dell’area di Rho-Pero per svolgervi la rassegna è un grosso regalo a Fiera, proprietaria di gran parte dei terreni, nel comitato promotore di Expo 2015, socia di Expo Spa e di Arexpo». In più, mentre le promesse sui 70.000 nuovi posti di lavoro erano state velocemente smentite, a un mese dall’apertura dell’Expo, i cittadini impiegati nell’evento denunciavano «stipendi da fame, contratti fasulli e licenziamenti politici». Nei documenti “NoExpo” si scriveva che di quel modello di città, di cui il mega-evento era l’apogeo, ne avrebbero beneficiato solo «speculatori, mafie e banche». Nel frattempo, proprio quelle realtà di lotta che avevano partorito dossier da centinaia di pagine e alternative concrete a una città vivibile, vedevano la loro possibilità di sopravvivenza in città sparire.
Dal 2015 a oggi in città ci sono stati più di 30 sgomberi di realtà autogestite. Milano è diventata tra le città più costose d’Italia e la macchia d’olio del cemento sembra arrivare ovunque. In un decennio, lo spazio di respiro ed elaborazione è stato sfibrato dal corpo-città milanese e ora tra le macerie luccicate delle comunità depredate rimangono indagini per abusi urbanistici e grattacieli con insegne sbilenche. Dieci anni dopo, la deregolamentazione neoliberista così come la mancanza o lo sgretolamento di politiche sociali, abitative e ambientali ha lasciato un cadavere squisito da depredare. “Nonostante l’Expo, la realtà” si legge rispolverando i documenti di quegli anni e di questa realtà, di questo possibile, si ha ancora bisogno, se no si soffoca.
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