Opinioni
1 settembre, 2025Ammettendo in un fuori onda di evitare le domande, la presidente del Consiglio svela il suo fastidio per la democrazia
C’è una frase, sussurrata da Giorgia Meloni a Donald Trump attorno al tavolo della Casa Bianca, che non sarà facile dimenticare: «Io non voglio mai parlare con la stampa italiana. Meglio non prendere domande». Non è un fuori onda come gli altri. Non è la boutade da microfono aperto che tradisce un pensiero effimero. È un autoritratto involontario che disegna in poche parole la relazione tra la presidente del Consiglio e l’informazione nel nostro Paese. Diffidenza, sospetto, insofferenza: tutto condensato in una frase che non ha bisogno di essere interpretata.
Non è un mistero che le conferenze stampa della premier siano ormai rare come eclissi. Quando arrivano, sono blindate nel tempo e nella forma: risposte brevi, nessuna voglia di dialogare, lo sguardo già rivolto all’orologio. La scena si ripete: la domanda arriva, la replica è stringata, il microfono viene spento e la presidente scompare. Nessuna possibilità di contraddittorio, nessuno spazio per la verifica.
Molto più spesso, il canale scelto per comunicare è quello dei social: un video registrato, montato, pubblicato. Il messaggio arriva senza mediazioni, senza domande, senza fastidi. È un monologo, non un confronto. Ed è proprio questo il punto: la rinuncia al rito democratico della conferenza stampa significa rinunciare a un pezzo essenziale del patto tra governo e cittadini.
Perché la stampa, in una democrazia, non è un orpello. Non è il fondo scenico di una rappresentazione politica. È un cane da guardia: fa domande, incalza, chiede conto delle decisioni, misura le contraddizioni, verifica la coerenza. A volte è scomoda, quasi sempre è fastidiosa per chi governa. Ma è proprio da quel fastidio che nasce il valore della libertà.
La presidente del Consiglio – che pure è bravissima nei botta-e-risposta – sembra invece leggere le domande come trappole e i giornalisti come avversari. Non come interlocutori che esercitano un ruolo previsto dalla Costituzione e necessario alla salute della democrazia. Eppure il dovere di rendere conto non è un favore che si concede: è parte integrante del mandato. Chi ha il massimo potere deve accettare il massimo del controllo. Non da parte di un’istituzione antagonista, ma da parte di chi porta la voce dei cittadini e li informa. Non si governa a colpi di videoclip né con i tweettravestiti da comunicati. Si governa anche rispondendo, argomentando, spiegando.
Il fuori onda di Washington ha il sapore della sincerità. Perché è lì, nell’istante in cui crede di non essere ascoltata, che la premier confessa la sua vera convinzione: la stampa italiana è un corpo estraneo, da evitare. Ma se il giornalismo viene visto come un nemico da neutralizzare, allora la democrazia si impoverisce. Perde uno dei suoi contrappesi fondamentali.
Il paradosso è che proprio i leader più forti, quelli che hanno la maggioranza solida e il consenso alto, dovrebbero sentirsi liberi di affrontare le domande, invece di rifuggirle. Perché non hanno nulla da temere, se non la verità delle proprie scelte. E la verità, in politica, non è mai un problema: è la condizione minima per chiedere fiducia ai cittadini. Il rischio, altrimenti, è quello di una democrazia silenziata, dove la comunicazione diventa propaganda e il confronto diventa sospetto. In cui il potere parla solo quando vuole, solo di ciò che vuole, solo come vuole. Ma la libertà di stampa non appartiene a chi governa.
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