
Distanza è la parola chiave. Distanza tra il castello e la strada, appunto. Tra il palazzo e il marciapiede. Tra le promesse e la realtà. Tra i Cinque Stelle - che di Taranto avevano fatto una capitale del movimento e che qui hanno eletto quattro deputati e un senatore, sbancando i collegi uninominali - e la rete ambientalista che si organizza sempre più, giorno dopo giorno, e che di fatto si candida a diventare la cabina di regia dei movimenti ecologisti del resto del Paese.

Non a caso, è proprio qui che gli avvocati e gli attivisti dell’associazione A Sud hanno lanciato il 4 luglio scorso la campagna “Giudizio Universale”, la prima azione legale contro lo Stato italiano per affermare il diritto al clima come diritto umano (www.giudiziouniversale.eu). «La distanza è totale, la credibilità dei Cinque Stelle è azzerata. I parlamentari sono spariti. Di Maio nella sua ultima tappa a Taranto, il 24 giugno, non ha più nemmeno chiesto di incontrarci. Ma se lo avesse fatto non ci saremmo più presentati». La senti tutta, la rabbia di Luca Contrario, che coordina il movimento Giustizia per Taranto, nato dalla grande manifestazione del 25 febbraio 2017, oggi al centro della fitta rete di associazioni cittadina. Quarantatré anni, tributarista, esperto di sistemi di gestione ambientale. Luca è tra quelli che ha tentato fino alla fine di credere in una possibile collaborazione con il ministero dello Sviluppo Economico. E che le tappe se le ricorda tutte, a memoria. «Un anno fa sembrava un’altra storia. Siamo stati due volte al ministero, a cavallo tra giugno e luglio 2018. La prima volta abbiamo presentato a Di Maio il Piano Taranto. Perché noi non siamo ambientalisti romantici. Non siamo hippie che pensano che dobbiamo chiudere l’Ilva e piantare fiori. Noi sappiamo che il bottone per chiudere subito il polo siderurgico non esiste. E per questo abbiamo studiato un piano che lavora su tre punti: chiusura progressiva, riconversione e bonifica».

Iniziare a spezzare la dipendenza di Taranto dall’acciaio conviene, anche economicamente: è questa la tesi del Piano Taranto. Perché chiudere progressivamente le fonti inquinanti sblocca altre economie. Ed è questa l’unica strada possibile per frenare lo spopolamento giovanile, che in molti casi vede i giovani scappare anche dall’inquinamento. «Un anno fa era ancora tutto in gioco. Chiedevamo un cronoprogramma della chiusura e i Cinque Stelle erano parte del movimento e avevano inserito la questione della chiusura progressiva nel contratto di governo. I parlamentari, prima di essere eletti, erano con noi sulle barricate. Ora non rispondono più al telefono, non si interfacciano più, non partecipano più a niente.
Nel primo incontro al ministero, Di Maio sembrava sinceramente colpito dalla storia del piccolo Lorenzo Zaratta, uno dei tanti bambini di Taranto ammazzati da un tumore infantile. L’abbraccio con Mauro Zaratta, il padre, fu un’immagine forte. Pensammo che finalmente la vicenda fosse a un punto di svolta», continua Contrario. «Pochi giorni dopo fummo chiamati di nuovo al Mise: si presentava il piano ambientale di Arcelor Mittal. Ed esplose la questione dell’immunità penale. La multinazionale fu chiara: senza immunità non avrebbe investito. Ma si andò avanti comunque. Evidentemente l’agenda politica è dettata dalla Lega. Che si è espressa in maniera chiara sulla necessità di continuità produttiva. E Di Maio ha progressivamente cambiato la sua posizione. E, secondo le indiscrezioni, l’accordo sull’immunità penale è stato già chiuso».

È su questo punto che i Cinque Stelle stanno perdendo la faccia. Peggio che nei casi Tav e Tap. Come se non fosse bastato l’antipasto dei 1.400 lavoratori in cassa integrazione dal 1 luglio, la nuova proprietà è stata chiara: o arriva una “proroga” dello scudo giuridico che assolve l’impresa dai continui reati ambientali che comporta tenere accesa l’ex Ilva, oppure i termini per la recessione dal contratto ci sono. Se, come scrive in queste ore il quotidiano di Confindustria Il Sole 24 Ore a tutta pagina, davvero è tutto nero su bianco sia nel “Protocollo Calenda” del 28 giugno 2017 che nell’“Addendum Di Maio” del 14 settembre 2018. Tradotto: in caso di mancata proroga post settembre dell’immunità penale, Arcelor Mittal avrebbe diritto di rivedere i patti. E lo Stato italiano rischia una causa a molte cifre in caso di virata. Con la certezza, però, che se l’immunità penale passa, è in arrivo una nuova ondata di contestazione ambientalista che potrebbe sferrare il colpo di grazia alla tenuta dei Cinque Stelle, in caso di accordo sull’immunità penale e mancata restrizione dell’Aia, l’autorizzazione ambientale che il Ministro dell’Ambiente Sergio Costa vorrebbe rivedere. «La posizione del ministro Costa è l’unica, nel governo, che traccia una via d’uscita», dice Ubaldo Pagano, 40 anni, l’unico parlamentare del Pd eletto nel collegio tarantino. Pagano (molto vicino al governatore Michele Emiliano) sta prendendo sulla vicenda posizioni molto nette, spesso fuori dal coro. No all’immunità penale, sì a un’autorizzazione ambientale completamente rivista e rafforzata. «Di ogni comparto produttivo i cittadini di Taranto hanno diritto di sapere quanto e come inquina. E devono essere messe in campo azioni legate alla sostenibilità dell’impatto. Se Arcelor Mittal vuole restare non può sottrarsi a una nuova Aia e deve investire in ambientalizzazione spinta. Per esempio, creare le condizioni per riconvertire i tre altiforni chiusi e oggi spenti per rifarli non a carbone ma a gas».

Inutile negarselo, però: anche una nuova autorizzazione ambientale rafforzata rischia di aprire la strada per un contenzioso o per un disinvestimento, con tanto di fuga di Arcelor Mittal da Taranto. Ipotesi che darebbe ragione ai sostenitori della “teoria del Pac Man”, secondo cui il gigante dell’acciaio è venuto a Taranto solo a mangiarsi un competitor e guastare il mercato, rafforzando una situazione di sostanziale monopolio europeo di settore.
Intanto un altro pezzo storico del movimento ambientalista tarantino, il Comitato dei Cittadini Liberi e Pensanti, denuncia per voce della sua presidente, Simona Fersini (46 anni, impiegata), un’emergenza amianto in corso. «Quella fabbrica è illegale perché è piena di amianto. La presenza di amianto in vari punti della fabbrica è stata certificata proprio da Arcelor Mittal. Questo dà la misura di quanto è ormai insostenibile la situazione. L’amianto è illegale, i lavoratori sono a rischio ma entrano in fabbrica tutti i giorni. I sindacati su una cosa del genere dovrebbero saltare da terra». I lavoratori dell’Ilva (oggi meno di 9 mila, indotto escluso) non sono solo cittadini di Taranto.
Tutta la provincia è coinvolta, ma anche nella vicina Valle d’Itria, nell’area a Sud di Bari, nelle cittadine turistiche come Alberobello e Martina Franca, di operai dell’ex Ilva, in attività o in pensione, ce ne sono a decine e si incontrano per strada, nei bar, a chiedersi di che morte morire: di disoccupazione o di malattia. La paura diffusa è che nessun comparto “immateriale” come il turismo, la cultura, l’economia legata alla bellezza, al paesaggio, all’innovazione sociale possa sostituirsi all’industria. E allora si fanno largo le donne, moltissime, del movimento tarantino. Perlopiù madri. Come Carla Lucarelli, orfana di figlio, come si definiscono i genitori con le famiglie recise e sconvolte dai tumori infantili. E le madri dei “Tamburi Combattenti”, il comitato nato nel quartiere più vicino alle ciminiere due anni fa. Una di loro è Celeste Fortunato, 40 anni, che lavora in un call center e che dopo lo shock delle ordinanze anti-gioco e le barricate in casa nei “wind days”, ha visto chiudere, a marzo, due scuole su cinque del quartiere.
«È iniziata la deportazione dei bambini», dice Celeste, che si è messa alla testa della protesta. Perché ancora non è chiaro dove finiranno da settembre le classi della Scuola Grazia Deledda, temporaneamente trasferite e oggi in un limbo insopportabile. «I bambini che stanno pagando più di tutti sono quelli con disabilità, per esempio i bambini con autismo, che sono sconvolti da questi continui disagi», spiega una giovane educatrice scolastica, Sara Mastrobuono, attivista dell’associazione Tutta mia la città. «Viene toccata anche la nostra intimità. Non possiamo stendere i nostri panni fuori. Non mandiamo i bambini a giocare negli spazi aperti. Quando laviamo i nostri figli li controlliamo, li studiamo e passiamo le mani sulla loro pelle per vedere se hanno un linfonodo, qualche segnale di malattia», spiega ancora Celeste Fortunato. È sulla insostenibilità della situazione sanitaria che il dibattito precipita e la chiusura del polo siderurgico - impensabile fino a pochi anni fa - diventa una possibilità sempre più popolare. Con una tensione che rischia di salire settimana dopo settimana, con l’avvicinarsi delle prime sentenze sul procedimento penale che ha coinvolto anche l’ex governatore Nichi Vendola. E le elezioni regionali alle porte nella prossima primavera. Con Michele Emiliano che su Ilva, Tap, emergenza Xylella e trivellazioni cerca da sempre di recuperare la gran parte del consenso a sinistra e tra i movimenti.
Consenso senza il quale, con il flop del Pd alle ultime europee (nemmeno un europarlamentare pugliese eletto e risultato regionale fermo al 16,6 per cento, molto sotto la media nazionale) e con gli oltre 400 mila voti della Lega di Salvini (poche migliaia in meno dei Cinque Stelle, che restano primo partito) Emiliano rischia di saltare il secondo mandato.