In battaglia contro l’ilva. Da professore di italiano a esperto di chimica. Da simpatizzante a contestatore dei 5 Stelle. La storia dell'uomo dei numeri che disse "Ministro, mi guardi negli occhi"

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L'uomo dei numeri è schivo, ha potenti risate a scoppio e sostiene di non avere buona memoria: «È mia moglie che ricorda le cose importanti», dice seduto al bar Orchidea di Taranto. L’uomo dei numeri, senza nemmeno leggere, quando il 24 aprile era al tavolone della Prefettura di fronte a Luigi Di Maio ha però elencato dati e percentuali di emissioni tossiche dell’Ilva degli ultimi mesi, inchiodando alla falsità delle sue affermazioni uno dei padroni di questo tempo bislacco e pauroso. Assai più efficace di una opposizione piuttosto inesistente - ma anche molto meglio di un giornalismo spesso sbiadito. Con un video memorabile e un mantra da prestigiatore («Mi guardi negli occhi, ministro»). Un David Copperfield al contrario: un disillusionista del grillismo. E per di più in diretta streaming, che beffa.

L’uomo dei numeri si chiama Alessandro Marescotti, ha 61 anni, un figlio di 32, insegna italiano e storia negli istituti tecnici da quando ne aveva 26, cita Gandhi e don Milani, nel 1991 ha fondato Peacelink, associazione pacifista che di suo si occuperebbe della lotta all’Aids in Congo. Da sempre pacifista, pioniere nell’uso di computer e rete, ambientalista per caso e per necessità, è un simbolo di questo tempo sommerso dagli annunci, soffocato dalla propaganda, di questa campagna elettorale frantumata in attimi fasulli, ciascuno in volo come dopo una martellata, senza un briciolo di verità. Un simbolo per il no che ha detto, facendo irrompere la realtà nella narrazione: «Ministro mi guardi: non c’è il taglio delle emissioni che avevate promesso. Le tecnologie che avevate dichiarato di aver installato non sono mai state installate», ha detto quel giorno. E giù, una valanga di numeri, circostanze, constatazioni. Elementi che nessuna risposta di ministro può smentire. Dati pubblici, tratti dalla rete, elaborati grazie a un software (Omniscope) disponibile a tutti, ai quali nessuno ha potuto replicare. Come mettere in scena un «il re è nudo» ad anagrafe invertita. Il re di trent’anni, il ragazzino di sessanta.
«E pensare che la materia in cui andavo peggio, al liceo, era la chimica. Pensavo che nella vita mi sarei occupato di storia, di storia della pace».
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Marescotti racconta stupito una vicenda, la sua, che è spaventosamente intessuta di mancanze. Le mancanze della politica, le mancanze delle istituzioni. La mancanza di coraggio. L’assenza di strumenti per misurare la diossina nell’aria, l’assenza di leggi adeguate a sanzionarne gli eccessi, l’assenza in genere di un orizzonte accettabilmente ordinato, l’assenza di una ragionevole prevedibilità sul chi fa cosa. E una risposta che per decenni si è cucita col fil di ferro e spago. E voragini paurose. Tipo: «Ho chiesto alla ministra Grillo se aveva una previsione circa il picco di tumori a Taranto. Mi ha detto che si deve informare». Oppure: «Dieci anni fa ho domandato a uno dei più grandi esperti di diffusione dell’inquinamento se avessero mai studiato la capacità diffusionale del più grande camino d’Europa, quello dell’Ilva: mi ha risposto di no». Avvinghiato forse soltanto ai numeri, appassionato ma disilluso dalla sinistra, dai grillini, dalla politica in genere, Marescotti spiega dove siamo con una rabbia sottile, educata, del tutto priva di tratti eroici, fatta piuttosto di: «E che caspita, ma non ci ha pensato nessuno?».

L’uomo dei numeri hanno provato a dipingerlo come uno venuto dal nulla - «e tu dove eri?», gli hanno contestato in rete i grillini - e invece è quasi vent’anni che si occupa di inquinamento a Taranto. Dal 2001 per la precisione: «Un chimico dell’Arpa mi portò delle foto, con operai in mezzo ai fumi, mi spiegò tutto. Prima, per tanto tempo mi ero occupato di pacifismo, di disarmo, di solidarietà: perché ero convinto che ci fosse qualcun altro che si occupava con efficacia di problemi ambientali, a Taranto». E invece poi è stato lui, con la sua associazione Peacelink, a far partire il primo processo contro le cokerie dell’Ilva, mostrando appunto al Procuratore quelle foto, e poi a dare il via al primo maxiprocesso, Ambiente svenduto, grazie all’idea di far analizzare formaggio fatto con il latte delle pecore e capre che pascolavano accanto all’acciaieria. «Era il 2008, le emissioni di diossina nell’aria erano altissime ma legali, e allora trovammo il tallone d’Achille per far partire il processo: il pecorino. Lo facemmo analizzare, aveva diossina e pcb cancerogeni tre volte sopra i limiti della normativa europea. Presentammo un esposto alla Procura. Sapendo che, a differenza dell’aria, quel pezzo di formaggio, potendo arrivare a Parigi, Londra e Bruxelles, doveva rispettare i limiti europei, era sottoposto a leggi più stringenti». La sola legge italiana sulle emissioni non sarebbe bastata, prevedeva limiti troppo alti.
Alla faccia della propaganda cinque stelle, Marescotti era persino un simpatizzante grillino, dieci anni fa. Uno che si metteva la maglietta del Meetup e andava a sentire il comico-leader: «A me Grillo piaceva, perché diceva cose nuove, intrecciava l’idea della cittadinanza attiva con temi scientifici. Non c’era la politica. Ero in contatto col Meetup, all’epoca era una struttura a stella che cercava di raccordare le varie realtà locali che si occupavano di ecologia, di consumo critico. E così per ben due volte siamo stati invitati come associazione e l’ultima volta sono stato chiamato sul palco. Grillo disse: “I numeri, i numeri, i numeri”. Perché i numeri sono importanti. Li conoscevo a memoria. Conoscevo a memoria tutti i numeri».
«Ci sono capitato, dentro questa storia della diossina, in maniera puramente casuale. Cioè così: scopri una cosa che non ci dovrebbe essere, e nessuno sa che c’è. Non solo: io non ci capivo niente. A Taranto, c’erano tonnellate di polveri, di sostanze nocive, poi ci stavano 73 grammi di Pcdd Pcdf. Leggi le analisi e pensi per fortuna. Poi telefoni a un chimico e dici: abbiamo scoperto che c’è diossina, ma ce n’è poca. Solo 73 grammi. E quello dice: “Sarai pazzo. Siete tutti morti con 73 grammi. Vorrai dire nanogrammi”. Guardo: non c’è la N. Grammi. “Grammi?”. La mia preparazione era catastrofica. Quindi, di base, era inimmaginabile che finissi a fare questo. Sono stato scelto da alcune persone, che mi hanno spiegato. Avevano visto in me la persona adatta. E io mi sono sempre stupito di questo fatto. Sono stati altri che mi hanno scelto, che mi hanno formato e hanno individuato in me la persona che sapeva divulgare certe cose. Come posso dire: nella vita c’è qualcuno che ti vede adatto a fare una cosa, e tu senza volere diventi quello. La mia idea era che mi sarei occupato di storia, storia della pace. Invece sono diventato quello che si occupa della diossina».

«La questione della diossina è stata una sorta di segreto militare a Taranto: fino al 2005 nessuno ha mai detto che c’era. Adesso siamo tutti abituati a navigare, allora no. Noi dal 1991 usavamo le mail, come Peacelink eravamo all’avanguardia, ai tempi del Kossovo eravamo il sito più cliccato tra quelli anti-guerra, abbiamo costruito tra i primi sistema di redazione social, da sempre abbiamo cercato di promuovere la cittadinanza attiva attraverso gli strumenti digitali. Nel 2005 entrammo dentro il database dell’Eper e dell’Ines, trovammo le stime di tutte le fonti emissive delle grandi industrie. Così, per la prima volta, con quella incursione, scoprimmo che a Taranto c’era il Pcdd e il Pdcf, che stanno per policlorodibenzodiossine e policlorodibenzofurani. Io pensavo fossero sigle di partiti politici, per dire quanto ne capissi. Così venne fuori che a Taranto c’era l’8,8 per cento di tutta la diossina europea di origine industriale, che c’era il 90,3 per cento di tutta la diossina industriale italiana. Non ho buona memoria però da sempre, quando qualcosa mi appassiona, me la ricordo. Da bambino leggendo Quattroruote imparavo lunghezza, larghezza, peso e cavalli di tutte le automobili. Nel 2005, dovendo pubblicare questi dati, li ho imparati. Per questo Grillo mi ha chiamato sul palco, dieci anni fa. E sotto tutti applaudivano».
«Di Maio no, non lo conosco. L’ho visto due volte in tutto. La prima è stata al ministero dello Sviluppo economico, l’estate scorsa, in un incontro dove erano presenti tutte le associazioni ambientaliste. Anche allora ho chiesto di parlare. C’erano i vertici di Arcelor Mittal. Dicevano che avrebbero installato i filtri ibridi, e non quelli a manica, perché erano più innovativi. Io li avevo studiati in anticipo: avevo trovato la scheda tecnica dentro il sito Siderweb, che è a pagamento ma consente un primo accesso gratuito. Così scrivo un bigliettino a Di Maio e - non era previsto - chiedo di parlare un minuto. Riporto tutti i dati dei filtri ibridi, paragonati con quelli delle emissioni Ilva, per far vedere che l’applicazione dei filtri peggiorava i risultati. Il dirigente di Arcelor Mittal comincia a urlare, in un inglese con cadenza tedesca: “Dove avete preso queste informazioni? Dove avete preso queste informazioni”. In effetti, aveva detto che non poteva dare dettagli tecnici su questi filtri ibridi, perché era segreto industriale. Dopo l’incontro a Taranto, Di Maio non l’ho più visto. Quella è stata l’unica occasione per dirgli qualcosa. Quel giorno, per strada, a Taranto c’era la zona rossa e i tiratori scelti sui tetti. Roba che nemmeno nel periodo caldissimo del Salva-Ilva. La distanza tra Di Maio e chi lo contestava era talmente vasta che la gente non poteva neanche vederlo. E lui non ha potuto neanche ascoltare cosa dicesse la gente. E menomale che dicevano “la nostra scorta sarà la gente”».

«I miei ragazzi a scuola non hanno fatto nessun commento. Con loro non parlo mai di queste cose. Dell’attività di Peacelink porto nella scuola soltanto il lato della solidarietà, quello sì. Penso che arricchisca. Sono trent’anni che promuovo la solidarietà, che lavoro per dare un’altra idea del mondo: abbiamo portato a Nairobi i computer vent’anni fa, in classe parlavo di Enrico che stava in Africa. Lavoro ad avvicinare mondi. Se riesci a far cooperare persone a distanza, dai nelle mani della gente un enorme potere. Lo sanno anche i grilini, che infatti avevano i Meetup per un esperimento che è nato prima di Facebook . Soprattutto, in rete, i grillini sono stati bravissimi nello scegliere il meccanismo e nell’operare la massima semplificazione: poche parole, un colore. E poi, siccome si rivolgevano a un pubblico di analfabeti funzionali, hanno pensato che non c’era più bisogno di scrivere: parlavi. La scelta di parlare è giusta: il 70 per cento popolazione italiana non è in grado di comprenere un testo di media complessità. Infatti quando parlo coi miei studenti, spiego che lavoro per fare in modo che loro stiano dalla parte del trenta per cento. Utilizzo la letteratura come base per esercitare competenze linguistiche: parlare, comprendere, saper discutere, realizzare testi. Mi è servito molto l’esempio di don Lorenzo Milani, che riteneva importantissimo imparare tante parole, comprenderle. La quantità di parole ti permette di non essere escluso dal mondo».

«Quando sono diventati un partito, i Cinque Stelle hanno attivato dinamiche non inclusive. Il passaggio alla politica cambia la fisionomia, per loro in particolare: devi incominciare a guadagnare voti. E quindi non fai più battaglie impopolari: alimenti il malcontento. Ma a me, di arrivare al cinquantuno per cento farcendo incetta dei voti dei razzisti, interessa niente. A me interessa la verità, non la politica. E quanto hanno sgomitato: a Taranto, per affermarsi, i parlamentari grillini hanno portato avanti una campagna di emarginazione dei soggetti storici che avevano fatto ambientalismo. Hanno creato sospetto, una strisciante emarginazione: perché tra loro, che non avevano fatto quasi niente, e tu, che avevi dedicato tutto il tuo tempo a fare delle cose, loro erano quelli perdenti. Dovevano invece ribaltare l’immagine: loro erano quelli che avevano da subito avuto l’intuizione di chiudere l’Ilva, e tu invece quello fesso che aveva creduto nelle promesse. Adesso però l’Ilva non l’hanno chiusa, e non hanno neanche migliorato le condizioni di salute. E tu ti scontri con un governo che ti ha sedotto e abbandonato».

«Potrei parlare decine di minuti dando dei dati, leggi, sostanze chimiche. La mia vita l’ho costruita in base all’assunto che non dovevo sbagliare niente. Dovevo comunicare il numero giusto, la legge giusta, la sostanza chimica giusta, pur non avendo studiato legge, non avendo studiato chimica, e pur non avendo una buona memoria. La mia fortuna è stata incontrare persone preparatissime, espertissime, che mi hanno spiegato. Io, però, non lo so se lo rifarei. La funzione che abbiamo avuto, tante volte, è stata quella di mettere le autorità competenti nelle condizioni di andare avanti. Però che caspita, perché dobbiamo essere noi a fare queste cose? Per dire, nell’aprile 2005, quando facciamo il comunicato sulla diossina diventa la prima notizia del Tg3 Puglia. Perché il giorno dopo nessun partito politico, nessun sindacato, nessuna istituzione, dice: cominciamo a occuparci di questo. Reazione zero: anche di Nichi Vendola, che allora per me era un mito, ma poi è crollato. Irraggiungibile, distante, nemmeno leggeva la posta elettronica, non voleva entrare realmente in conflitto con l’Ilva. Oppure nel 2008, la prima volta che vengo chiamato dalla Rai subito dopo le analisi della diossina nel formaggio: sapevo che da quel momento in poi la storia di tante persone sarebbe cambiata. Mi prendevo l’onere di dire, davanti ai microfoni della Rai, che era stata trovata la diossina nel formaggio. Mi rendevo conto che correvo un rischio enorme, se la cosa non fosse stata vera, per un qualsiasi errore. Dissi tutto con estrema lentezza. Appena spenta la telecamera, il giornalista della Rai fa: “Marescotti, ma questa cosa è vera veramente?” Sì, è vera purtroppo, ho detto. E lui: “Speriamo di no”».

«La stessa cosa si è ripetuta nel 2011 con la scoperta della diossina nelle cozze. Lì il lavoro è stato fatto insieme con Fabio Matacchiera, è stato lui a far fare le analisi. Io gli ho dato una mano sulla comunicazione, perché il lavoro era molto difficile, ti andavi a scontrare con un fatto identitario: le cozze del Mar Piccolo. E lì abbiamo corso un rischio vero. Ricordo che la stessa Questura ci consigliò di stare molto attenti, si ipotizzò la scorta, andavo a scuola molto presto, evitando di passare in mezzo a persone, preferivo i marciapiedi protetti dalle macchine parcheggiate. E intanto il sindaco di allora, Ippazio Stefàno, andava in piazza a mangiarsi la cozza davanti a tutti e dire: «È buona». È stato un momento terribile. Sentirti da una parte in pericolo, e dall’altra parte tutti i politici che ti danno addosso, perché hai rovinato l’immagine della città. Io non lo so, se tornassi indietro, non lo so se farei tutte queste cose qui, al posto delle istituzioni. Perché era loro il compito, non mio. Dopodiché, è vero, le istituzioni si sono mosse. Ma non va bene».

«E adesso? La vera partita, come dimostra anche questa vicenda, si gioca oggi sulla verità. Molti a Taranto ritengono che l’efficacia di una lotta dipenda quasi dallo scontro fisico. Io invece ritengo che la verità sia lo strumento attraverso cui puoi produrre qualcosa. Sapere la verità su quelle che saranno le vittime, su quello che è l’impatto inquinante, su quello che hanno installato. La questione della verità è cosi importante anche perché M5S ne ha fatto un punto di identità: ci si gioca l’immagine. E devono stare attenti, a saper distinguere la comunicazione pubblicitaria dalle informazioni. A me, tutti i ministri presenti quel giorno in Prefettura hanno dato risposte sbagliate: prima Di Maio, poi Costa, poi Lezzi, e ognuno si è attaccato all’errore dell’altro, come Fantozzi quando si aggrappa all’autobus e finisce per tirare tutti giù per terra. Ma tu, partito, sei il primo a non doverti raccontare cose non vere, perché altrimenti autoalimenti una realtà che non esiste: il rischio è che M5S si intossichi e, oltre a drogare il proprio elettorato con informazioni non vere, finisca a lavorare sugli errori, su cose sbagliate. Mentre la verità diventa del tutto secondaria. La chiamano post verità, mi pare».