Tre settimane dopo la strage di Ustica, il 18 luglio 1980 viene ufficializzato il ritrovamento, sui monti della Sila, dei resti di un Mig-23 libico. Il cadavere del pilota è in avanzata decomposizione, scrivono i medici legali. Vecchi e nuovi testimoni, compreso un ufficiale dei carabinieri che partecipò ai sopralluoghi (intervistato l'anno scorso da Sky Tg24), confermano che quel caccia era precipitato già a fine giugno. Quindi è «l'intruso»: l’aereo che si nascondeva sotto il DC-9.
«Le lamiere sono perforate da colpi di cannoncini aeronautici da 20 millimetri: quelli in dotazione agli aerei americani, in particolare agli F-15 partiti dalla Sardegna», spiega l'ingegnere aeronautico Ramon Cipressi. «Quelli francesi sono da 30 millimetri, anche i russi e i libici non hanno calibri così piccoli. Sulle lamiere ci sono anche schegge di missili», aggiunge il suo collega Marco De Montis. Conclusione: il caccia libico è stato abbattuto in una seconda battaglia aerea.
La prima, quella che ha coinvolto il DC-9, secondo gli esperti fu combattuta da due caccia americani "A-7E Corsair II", arrivati per primi perché erano i più vicini: «Sono velivoli mono-motore, armati di missili e cannoncini, ma meno veloci del Mig», precisa De Montis. Dopo il disastro, l'inseguimento dell'aereo libico viene proseguito dagli F-15, che sono «caccia supersonici, armati pesantemente»: i più adatti a raggiungere e abbattere l'intruso.

Almeno cinque testimoni italiani hanno assistito a quella scena di guerra. Descrivono «un aereo militare monoposto di colore marrone a chiazze», come il Mig libico, che «vola a bassa quota ed è in fuga» tra «lampi di luce», tallonato «da due caccia più grandi, biposto, bireattori», come gli F-15. I testimoni indicano da punti diversi la stessa rotta, rettilinea: i tre caccia arrivano dal mare, sorvolano lo stadio di Cosenza e si perdono sui monti della Sila. «È una linea retta che parte proprio dal Punto Condor dove c’era il DC-9», rimarcano gli ingegneri aeronautici.
Nei loro incontri, Cipressi e De Montis mostrano al professor Donato Firrao delle foto di pezzi e lastre di metallo ripescati in fondo al mare, nella stessa zona dell'aereo dell'Itavia. Questi reperti però non appartengono al DC-9. Sono componenti di un serbatoio esterno di un aereo militare statunitense. Ha la forma di un siluro, è stato prodotto in California dalla società Pavco, è lungo cinque metri e può contenere 300 galloni di combustibile, cioè 1.135 litri. Come mai è finito sui fondali accanto al relitto del DC-9? Dopo diverse richieste dei magistrati italiani, le autorità di Washington hanno risposto che sarebbe andato perduto nel 1981, a 60 chilometri di distanza, in un incidente aereo mai segnalato. Ma per gli esperti è «inverosimile» che sia stato trasportato dalle correnti fino a Ustica, visto che era frammentato in decine di pezzi.[Youtube#FAVH_6sa7Dk]
Il reperto è totalmente lesionato e ammaccato: «Sono deformazioni compatibili con l'impatto dovuto a una caduta in mare», osserva Cipressi. Tra i resti c'è anche uno spezzone di trave metallica, con due file parallele di buchi circolari, che serve ad agganciare il serbatoio all'aereo. «Come vedete, questo pezzo di trave d'aggancio è visibilmente strappato», sottolinea l'ingegnere: «Quindi il serbatoio si è staccato per un urto violento, non è stato sganciato». L'aereo militare che può aver colpito e destrutturato il DC-9, comincia a essere meno misterioso.

Le foto dei reperti si susseguono. Sulla punta del serbatoio si vedono tracce di vernice azzurra di una tonalità particolare. È molto simile, anzi sembra proprio identica, al colore distintivo dei dodici caccia “A-7E Corsair II” che la sera del 27 giugno erano imbarcati sulla portaerei americana Saratoga. Li utilizzava una squadriglia identificata come VA-37 “Bulls” (che significa tori). «Quei serbatoi in teoria possono essere montati su quattro modelli di aerei, ma solo quelli dei Bulls della Saratoga avevano la prua celeste», sottolineano Cipressi e De Montis.
Qui interviene il professor Firrao, che torna a mostrare il pezzo di ala destra dell'aereo dell'Itavia: «Sul bordo c'è questa striscia di colore bianco, che sembra avere una tonalità diversa rispetto a quello del DC-9. Si potrebbe fare una perizia per verificare a quale aereo apparteneva, come si fa per gli incidenti stradali». Cipressi aggiunge un dato eloquente: «Il serbatoio è finito in mare in traiettoria balistica rispetto al Punto Condor». Cosa significa? «Vuol dire che un oggetto in movimento a mille chilometri all'ora che cade da un'altezza di 7.600 metri, precipita proprio a quella distanza, in quel preciso tratto di fondale». I due ingegneri, esaminando le deformazioni, suppongono che sia stato schiacciato dall’aereo stesso che lo trasportava. Quindi anche il caccia americano, a sua volta danneggiato nella collisione, potrebbe essere caduto in mare, come fanno pensare altri indizi.
La sera della tragedia, gli equipaggi degli elicotteri del soccorso aereo di Palermo vedono una serie di razzi da segnalazione, di tipo militare, ma non italiani. Nel mare di Ustica, inoltre, sono state trovate boe di posizione statunitensi, di quelle che si usano anche per operazioni di ricerca e soccorso. Deduzione degli ingegneri: «Gli americani si sono attivati ancora prima degli italiani, quindi è chiaro che stavano cercando un loro pilota caduto in mare».
Un altro elemento concreto viene ritrovato, poco dopo la strage, su una spiaggia della Sicilia rivolta verso Ustica: è un casco da pilota militare americano. Se ne parla in un memorandum top secret preparato dalla nostra diplomazia per i premier italiani, desecretato solo nel 2014. Sul casco c'era un nome: John Drake. Le autorità Usa hanno dichiarato che esiste un solo pilota con quel nome, ma non ha mai operato nel Mediterraneo. Drake, peraltro, significa drago, quindi potrebbe essere un nome di battaglia. O un soprannome ispirato all'eroe di una popolare serie televisiva: un agente segreto della Nato.

Cipressi e De Montis segnalano un altro indizio: insieme al casco, fu ritrovato «un salvagente della portaerei Saratoga». Entrambi i reperti erano custoditi in depositi militari, ma sono spariti: qualcuno è riuscito a sottrarli, anche se erano sotto sequestro giudiziario.
Anche il misterioso pilota americano che ha perso il serbatoio bianco-celeste aveva amici molto potenti. Il professor Firrao, forte della sua autorevolezza, ha chiesto di poter esaminare quel reperto. Risposta? «Non si trova più». Era a Pratica di Mare, «è stato anche fotografato, ma ora dicono che non c'è più». Dopo il casco, insomma, «anche il serbatoio è sparito», si rammarica Firrao. E così, in attesa di identificare il caccia che ha ucciso 81 italiani, un fatto è certo: tutte le prove che potevano portare a Washington sono scomparse.
*La prima parte dell'inchiesta si trova a questo link. Su Spotify e YouTube, invece, è disponibile la versione podcast.