Nel giorno in cui l'Unione Europea, con poca convinzione e su "base volontaria", riprova a suddividere gli impegni e gli oneri economici per l'accoglienza dei profughi in fuga dall'Africa, il Niger assume un ruolo sempre più strategico. Il nuovo approccio alla questione, secondo il quale l'Italia chiederà aiuto alla Nato per controllare il confine nigerino a Sud della Libia, non affronta però i problemi di ordine alimentare e sociale che sono all'origine dell'emigrazione. Su questi aspetti non secondari pubblichiamo la testimonianza di un italiano che da trentatré anni vive in Niger, dove segue i progetti di artigiani, commercianti e agricoltori locali.
Cominciamo con il dire che in Niger soltanto il 7 per cento della popolazione ha documenti (dati Organizzazione internazionale per le Migrazioni, OIM) e che solo l’8,4 per cento degli abitanti “partecipa” alla scuola secondaria, cosa che non significa che ottenga un diploma. Tuttavia, su 21 milioni di abitanti, più di 10 milioni hanno meno di 18 anni.
Nel 2017, con un tasso di povertà del 44,1 per cento e un reddito medio pro capite di 420 dollari (circa 360 euro), il Niger è una delle nazioni più povere al mondo. Nel 2016 è stato il penultimo (187° su 188 Paesi) nell'indice di sviluppo umano del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, con un PIL di 7,509 miliardi di dollari (meno di 6 miliardi e mezzo di euro, centocinquantesima posizione), secondo i dati della Banca Mondiale.
Questo significa che un posto di lavoro pagato 30.000 franchi CFA (45 euro) al mese, quindi 360.000 franchi CFA (550 euro) all’anno, rappresenta più del reddito medio indicato dalle cifre della Banca Mondiale. Essendo questa cifra una media, ciò indica che una gran parte della popolazione non raggiunge nemmeno questa somma (forse anche più della metà), soprattutto se si osserva il tenore di vita di una certa classe di ricchi del Paese.
La rivista "Jeune Afrique" ci annuncia che «l’Africa sub-sahariana presenta più diseguaglianze dell’Europa, dell’America del Nord, della Russia o della Cina. La parte posseduta dal 1 per cento dei più ricchi – stabile da circa tre decenni – raggiunge all’incirca il 54 per cento».
Se andate a vedere su https://www.unfpa.org/fr/swop noterete che, per esempio, secondo le cifre del FNUAP (Fondo delle Nazioni Unite di assistenza alle popolazioni) c’è altrettanta disuguaglianza anche in Italia. Tenendo conto delle proporzioni tra i due Paesi, ovviamente. I disequilibri tra gli italiani sono ugualmente forti in termini di ricchezza: il 5 per cento dei più ricchi detiene in media oltre un terzo della ricchezza totale e l’1 per cento dei più agiati all’incirca un quinto.
Fra gli indicatori che dimostrano l’aumento delle disparità, in particolare in questi ultimi anni, nei Paesi aderenti all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE, tra i quali Italia, Spagna, Francia, Germania, Stati Uniti) è citata la differenza di tendenza tra il PIL per abitante, cresciuto in media del 1,5 per cento all’anno tra il 2010 e il 2015, e il reddito mediano, che si è accresciuto soltanto dello 0,6 per cento all’anno: un segno che l’accrescimento della ricchezza riflesso nella crescita del PIL non ha condotto a un incremento corrispondente del benessere medio.
Nel 2014, all’incirca l’11,2 per cento della popolazione dei Paesi OCSE era povero, vale a dire con un reddito inferiore al 50 per cento del reddito mediano, contro il 10,6 per cento del 2011. Lo studio sottolinea che livelli elevati di disuguaglianza «possono minare la fiducia nel governo e nelle istituzioni, cosa che può ridurre lo spazio per le riforme e può anche avere delle reazioni contro la mondializzazione, come si è visto in certi Paesi OCSE con la crescita di movimenti populisti».
Senza lotta “contro” questo sistema, noi di fatto lo sosteniamo, cosa che non dovremmo invece fare. Dovremmo piuttosto adattare gli approcci al Paese in cui operariamo, tenendo conto che l’obiettivo finale è lo sviluppo dell’impiego, quindi un arricchimento generale e non unicamente individuale. Allo stesso modo uno sforzo sostenuto deve essere messo in atto per non accrescere le disparità, ma al contrario provare a ridurle. È quindi certo che, in paesi come il Niger, lo sforzo dovrà essere più peri-urbano e rurale che urbano. Senza niente togliere all’importanza delle startup “moderne” non bisogna dimenticare che l’impiego qui è agricolo o non esiste.
Osserva Akinwumi Adesina, direttore della BAD (Banca Africana di Sviluppo): «Oggi l'Africa spende 35 miliardi di dollari (all’anno) per le importazioni alimentari. E se non facciamo nulla, entro il 2025, questa cifra sarà più che triplicata. Un onere che impedisce la stabilità macroeconomica e fiscale dei nostri Paesi. In realtà, l'Africa non ha bisogno di queste importazioni alimentari, avendo così tanto potenziale agricolo e terra disponibile. Detiene perfino il 65 per cento della terra arabile incolta del mondo. È l'Africa che dovrebbe nutrire il mondo, non il contrario. Dobbiamo prima di tutto rendere l'agricoltura più "sexy", se così posso dire. Presso le banche, che generalmente non amano concedere prestiti agli agricoltori, riducendo i loro rischi. Ma soprattutto con i giovani che devono integrare in maniera massiccia il settore. L'attuale età media degli agricoltori africani è troppo alta... Per alcuni il settore agricolo è un settore sociale, come la sanità, l'istruzione, ecc. Non hanno capito quanto sia vitale per l'economia, per la tassazione, per l'occupazione... Molto presto nella mia carriera, mi sono reso conto che è essenziale cambiare l'immagine che le persone, in particolare i giovani, hanno dell'agricoltura. Volevo che sapessero che questo non faceva necessariamente rima con il passato e la povertà, che potevamo essere cool e agricoltori... L'Africa ha tra le sue mani la chiave per nutrire i nove miliardi di persone che conterà questo pianeta da qui al 2050».
Akinwumi Adesina non prende in conto però un grosso problema che rallenta lo sviluppo dell'agricoltura: cioè la riforma agraria. Bisognerà ben un giorno interessarsene. Anche se farà male, si tratta davvero di un passaggio obbligato e di una conditio sine qua non.
Da un certo numero di anni, con il Senegal in testa, si sono diffusi degli "incubatori", per consentire, in linea di principio, l'emergere di micro-imprese più moderne e formali. Non ho trovato studi che presentino un rapporto costi-benefici per sapere se i costi di promozione hanno generato ricchezza, posti di lavoro e quanti. Quel che è certamente un’ovvietà salta agli occhi: si fanno pochi sforzi in direzione delle micro-imprese agricole o in materia d’energia, che sono quelle che darebbero molti posti di lavoro.
Questi incubatori, in Europa come in Africa, sembrano promuovere il successo personale più che l'occupazione. Questo li identifica come "secrezioni" del modello occidentale della società, in cui lo sviluppo dell'insieme occupa il secondo posto e consente ai ricchi di diventare più ricchi lasciando i poveri più poveri.
Tutto questo accade anche perché abbiamo concepito delle immoralità come i piani d’affari (business plan) "moderni", inventati per strutture che investono qualche milione di euro e applicati indiscriminatamente in Africa a delle micro-imprese che prevedono d'investire alcune migliaia di euro e per le quali sarebbe ampiamente sufficiente fare un calcolo della redditività. Le popolazioni povere non sono in grado di compilare un numero infinito di scartoffie e inoltre non hanno il tempo che hanno i ricchi per perdere giorni o settimane sulla carta, perché un povero deve garantire la propria sopravvivenza quotidiana. Chi ha il tempo di trascorrere settimane a fare della teoria ha, da qualche parte, il pane quotidiano garantito e quindi è un privilegiato.
Il povero, in Occidente come in Africa, e prendo esempi dalla mia famiglia, non può permettersi di "sospendere" l'attività che gli dà da mangiare. Come per la formazione, bisognerebbe che l’attività fosse fatta presso il beneficiario, senza che questi si muova. Ciò gli consentirebbe d’altronde di rimanere vicino alla sua realtà quotidiana.
Sarebbe quindi importante patrocinare e sponsorizzare le micro-imprese, stabilendo il postulato di dare la priorità a quelle che danno maggior impiego, formale o informale. Un lavoro corrisponderà a uno stipendio, che sarà speso e quindi farà girare l'economia. L’arricchimento a oltranza di una micro-impresa individuale, senza altri lavoratori o con pochi impiegati, non farà che aumentare le disparità. L'altra priorità da considerare, e che si lega all'ambiente, è quella della trasformazione/utilizzazione/sviluppo delle risorse locali: alberi, frutti, vegetazione e alimenti.
A 50 anni dall’omicidio di Bob Kennedy vi lascio con questa riflessione: «Il Prodotto interno lordo calcola l'inquinamento dell'aria e la pubblicità delle sigarette e le ambulanze che ripuliscono le nostre autostrade dalla carneficina. Calcola le serrature speciali per le nostre porte e le prigioni per la gente che le scassina. Calcola la distruzione delle sequoie e la trasformazione delle nostre meraviglie naturali in crescita disordinata. Calcola il napalm e le testate nucleari e i mezzi blindati della polizia per combattere le rivolte nelle nostre città. Calcola il fucile di Whitman (Charles Whitman, autore della strage all'Università del Texas) e il coltello di Speck (Richard Speck, un altro serial killer) e i programmi televisivi che glorificano la violenza con lo scopo di vendere giocattoli ai nostri bambini. Il Prodotto interno lordo però non considera la salute dei nostri figli, la qualità della loro educazione o la gioia dei loro giochi. Il PIL non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei nostri matrimoni, l'intelligenza delle nostre pubbliche discussioni e l'integrità dei nostri pubblici ufficiali. Non misura né il nostro buonsenso né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra cultura, il nostro senso di compassione e nemmeno la devozione per il nostro Paese. In poche parole, il PIL misura tutto, tranne ciò che rende la vita degna di essere vissuta» (Bob Kennedy, discorso del 18 marzo 1968).
*residente in Africa dal 23 marzo 1973 e in Niger dal 2 novembre 1985