L'insegnamento della medicina affidato ai grandi ospedali complica il lavoro dei clinici. E frena la ricerca. Un grande medico analizza le lacune del sistema italiano
Capitò anche al presidente della Repubblica Sandro Pertini, quando fu portato al Policlinico Umberto I di Roma per un improvviso malore. Per trasferirlo in rianimazione cardiochirurgica (dove poi gli avrebbero applicato un pacemaker) lo spinsero in barella attraverso il tunnel sotterraneo così bene descritto nella recente inchiesta su questo giornale: un girone dantesco intravisto da Pertini e raccontato poi ai cronisti con risentito umorismo.
Son passati vent'anni, e il tunnel è ancora lì, monumento a una cattiva organizzazione, a incuria, non rispetto dei malati. Uno scandalo, certo. Ma, più che di mala sanità, si tratta di un difetto organizzativo, che diventa però un attentato alla qualità dell'intera medicina italiana se si pensa che l'insegnamento della medicina in Italia avviene proprio nei Policlinici, secondo un sistema farraginoso e inefficace, che può frustrare anche gli sforzi di amministratori esperti e di medici bravi e preparati, vanificando il programma che dovrebbe e potrebbe costruire una medicina d'eccellenza.
L'Università ha il compito di far ricerca e insieme di far insegnamento e, per i clinici, di curare i malati. Ma questo è un impegno molto gravoso, che obbliga i professori a dividersi equamente tra i vari compiti con il rischio di seguire in modo discontinuo il lavoro clinico e i problemi dell'ospedale o di limitare il lavoro di ricerca oppure di insegnamento, perché assorbiti dalle problematiche ospedaliere. Cosa non difficile sino a qualche decennio fa, quando l'attività di ricerca era molto meno complessa e il numero di studenti era limitato, essendo l'Università ancora sostanzialmente elitaria. La complessità della ricerca di oggi, sia sperimentale che clinica ha posto il problema di come sia difficile fare ricerca e contemporaneamente formare una massa di studenti imponente.
Questo dilemma ha spinto molti paesi a creare reti di centri di ricerca extrauniversitari. L'esempio più importante è in Germania con i Max Planck Institutes che sono rigorosamente non universitari. Nati un secolo fa e intitolati allo scienziato Max Planck, fondatore della teoria dei quanti e premio Nobel per la Fisica, questi Istituti coprono tutte le aree scientifiche di rilievo, dalla medicina all'astrofisica, dalla matematica all'informatica, chiamando a collaborare i ricercatori più arditi.
Sono importantissimi questi Istituti anche per la formazione scientifica post-universitaria, tra cui notissimi la Neurobiologia di Heidelberg, la Immunobiologia di Friburgo, le Neuroscienze di Gottingen, la Proteomica di Martinsried. D'altra parte l'opinione è concorde nel riconoscere che ricerca e insegnamento siano un binomio fondamentale per la crescita culturale delle nuove generazioni. L'insegnante che fa anche ricerca, avrà maggiori capacità a condurre i discenti nel futuro della scienza, con modelli sempre più aperti alle novità, soprattutto instillando nelle loro menti i principi della conoscenza, fatti di critica permanente e di dubbi di principio essenziali per mantenere elasticità e conferire libertà al pensiero.
Vanno poi distinte due componenti nell'insegnamento: quello vero e proprio fatto nelle aule universitarie, e l'addestramento pratico, che è cosa diversa e che viene condotto nei Policlinici, al letto del malato. Quando l'Università era una scelta elitaria, e il numero di studenti in medicina infinitamente minore (noi della vecchia leva non facciamo fatica a ricordare con il loro volto da ragazzo tutti i pochi compagni di corso), gli studenti avevano a disposizione l'insegnamento e l'addestramento pratico in un tutt'uno, ed erano seguiti dai loro professori. Ora questo è difficile e l'addestramento sta diventando quasi un'utopia nonostante l'Università si stia irradiando sui poli ospedalieri, collocati in ospedali generali dove non è facile creare le condizioni perché gli studenti facciano anche pratica, anche se ci sono lodevoli eccezioni.
Esiste un solo modello per la formazione post-laurea? Certo che no. Ogni paese ha sistemi diversi. L'Italia appare piuttosto rigida, con la sua organizzazione legata all'Università sia per il corso di laurea in Medicina e Chirurgia sia per le Scuole di specializzazione. In tempi di rapidi anzi rapidissimi avanzamenti, l'Università italiana non sempre riesce a stare al passo.
E allora? Allora molti guardano al modello anglosassone, dove la specializzazione postlaurea, è fondata sul College di medicina e chirurgia, gestito dalle associazioni, piuttosto severe, degli stessi specialisti che formano e addestrano gli specializzandi. I vantaggi sono il grande impegno di studio e di preparazione teorica del candidato alla specialità associata alla documentata preparazione clinico-pratica. Un candidato ad esempio che voglia diventare specialista in chirurgia deve dimostrare di avere fatto correttamente, senza eccessiva morbilità , un numero elevato di interventi chirurgici.
Il punto debole del college è che si tratta di un sistema chiuso che presenta connotazioni di tipo corporativo, quindi espone al rischio di discriminazioni non sempre giustificate. In Europa (ma anche in Israele e in Giappone), la ricerca e la formazione dei medici sono prevalentemente assicurate dal sistema universitario, tuttavia diverso dal nostro, in genere con una scelta preliminare di qualità, che seleziona per questi compiti soltanto alcuni grandi istituti ospedalieri, di riferimento nazionale, come il Karolinska Institutet di Stoccolma.
Se mettiamo l'Italia a confronto con questi modelli, possiamo sentire inadeguato il nostro sistema, ma non dobbiamo perderci d'animo. Innanzitutto molte Scuole di Medicina stanno rivedendo le regole delle specializzazioni in modo positivo, richiedendo all'esame finale non solo una buona preparazione teorica, ma anche la documentazione di una capacità professionale elevata che garantisca la collettività che chi si fregia di un titolo di specialista sia davvero un competente. Sono destinati quindi a sparire gli specialisti giunti al titolo solo attraverso un esame teorico. Non sono passati molti anni da quando un medico poteva divenire specialista in chirurgia senza mai aver preso in mano un bisturi.
In secondo luogo, anche se occorre rigore per stroncare i fenomeni denunciati nelle inchieste scandalo, resta il dato che la medicina italiana è una buona medicina, un fatto che ci è riconosciuto internazionalmente. I medici italiani sono buoni medici, disponibili a sacrifici per frequentare corsi di aggiornamento e sarebbero entusiasti di fare ricerca, ma sono spesso costretti a lavorare in strutture ospedaliere antiquate, spesso carenti di strumenti banali di apprendimento. Nel modello di ospedale che avevamo proposto qualche anno fa, un occhio particolare era stato rivolto anche architettonicamente a stimolare lo studio e la ricerca. Inoltre avevamo dato avvio all'Ecm (Educazione Continua Medica), un progetto che è partito bene anche se non si è ancora evoluto completamente. Per esempio, non è ancora riuscito a sfruttare tutte le potenzialità dell'informatica con cui è possibile un ottimo aggiornamento a distanza. L'altra risposta è quella di fare in modo che la ricerca non resti un'esclusiva dell'Università o dei grandi Istituti Scientifici, ma che in tutti gli ospedali i medici facciano ricerca. Perché dove si fa ricerca il malato viene curato meglio, non è solo un paziente da curare ma è un paziente da studiare. Il medico si sente motivato dal vedere le proprie energie intellettuali diventare utili allo sviluppo della ricerca scientifica e il paziente si sente gratificato per l'attenzione continua.