Ha degli assassini per alleati, un fratello pesantemente indiziato di essere un trafficante di droga, un altro che è diventato ricchissimo in modo sospetto. Le buone maniere e la cura nel vestire ("È l’uomo politico più elegante del mondo", secondo lo stilista Tom Ford) non riescono più a coprire la debolezza di una leadership usurata da troppi insuccessi: il Paese è dilaniato da una guerra interna, non si è dotato di un esercito e di una polizia efficienti e ha un governo corrotto e poco trasparente secondo le Nazioni Unite. Eppure Hamid Karzai, dopo essere stato il recente passato, se a settembre saranno confermati come è pressoché certo i risultati elettorali, sarà probabilmente anche il futuro dell'Afghanistan. Al vertice ci sta ormai da otto anni, dal giorno rocambolesco e quasi letterario in cui passò, in pochi istanti, dal rischio di morire alla presidenza.
Era il 5 dicembre del 2001 e la sua casa a Sha Wali Kot, periferia di Kandahar, era stata distrutta per sbaglio dagli americani che avevano confuso la collina da bombardare. Alcuni degli uomini che erano riuniti con lui erano morti, Hamid cercava con una mano di pulirsi il sangue dal viso e con l'altra di togliersi i detriti che gli erano crollati addosso quando squillò il suo cellulare. Era un'amica della Bbc che gli comunicava: "Complimenti sei appena stato nominato presidente dell'Afghanistan ". A Bonn, i rappresentanti della Loya Girga, alla presenza della comunità internazionale, lo avevano prescelto per quella carica. In questo lasso di tempo è riuscito a farsi amare ed odiare con la stessa intensità, senza mezze misure. Solo una cosa sono disposti a riconoscere persino i più acerrimi nemici: è riuscito a dare alle diverse etnie del Paese un senso di unità nazionale. E sarebbe un peccato se il frutto di questa semina andasse perso proprio adesso con uno scontro fratricida tra sostenitori dei due candidati principali. Karzai è sicuro di aver vinto le elezioni. Il rivale Abdullah Abdullah, ex ministro degli Esteri, lo accusa di brogli. La Commissione Elettorale ammette che brogli ce ne sono stati ma non abbastanza da invalidare il risultato. Molti, nell'ambiente diplomatico, credono che si stia lavorando a un accordo tra i due per risolvere la situazione.
Fare accordi, mediare, è l'attività in cui eccelle Hamid Karzai. Nato la vigilia di Natale nel 1957 a Kandahar, nel sud dell'Afghanistan, è stato affascinato dalla politica fin da ragazzo. Suo padre era il leader del clan popalzay, etnia pashtun, il più potente della regione. Da lui andavano per sedare le dispute, per chiedere consiglio, per siglare accordi. Il piccolo Hamid, osservava. E imparava l'arte della politica. Pochi i diversivi. Ricorda Abdul Jabar Naimi, ex governatore di una provincia meridionale, diplomatico e amico: "Gli è sempre piaciuto fare sport, anche oggi continua a correre nel cortile della sua residenza. Amava anche andare al cinema, ma suo padre non voleva, così ci andavamo di nascosto con i suoi fratelli". Educazione rigida, scuola, università (laurea in Scienze politiche all'ateneo di Shimla, India), Hamid era l'unico dei fratelli che il padre portava con sé quando esercitava la difficile arte del comando. Dirà in seguito il presidente: "Da lui ho imparato quanto fosse importare ascoltare e cercare di mediare, da mia madre ho imparato invece che ci sono momenti in cui si deve rischiare e agire ". Il padre sarebbe stato ucciso nel 1999 durante un agguato a Quetta dove si erano trasferiti da anni dopo l'avvento del regime comunista. Convinto che fossero stati i talebani, Hamid giurò vendetta: li avrebbe cacciati dal suo Paese. All'epoca era uno dei milioni di profughi che lasciarono l'Afghanistan dopo l'arrivo dei russi. Per lui, un trauma: "A scuola il nuovo insegnante comunista mi trattava male solo perché pensava che la mia fosse una famiglia ricca" Nei campi per rifugiati Karzai diventa il punto di riferimento di otto fazioni diverse e non sempre concordi.
Tratta coi più estremisti. Gira per le ambasciate a a caccia di appoggi internazionali. Parla con chiunque possa dargli aiuto, dagli italiani, agli americani, alla Cia. Lo aiuta il fatto che padroneggia sei lingue: pashtu, persiano, urdu, hindi, inglese e francese. Cacciati i russi, rientra da viceministro degli Esteri del debole governo Rabbani. Quando esplode la guerra civile è costretto ad abbandonare Kabul. I talebani arrivati al potere gli offrono la poltrona di ambasciatore alle Nazioni Unite. Rifiuta, non si fida di quegli studenti coranici fanatici che avrebbero isolato l'Afghanistan. Ripara di nuovo all'estero per organizzare un'altra resistenza. È in Pakistan quando accade l'11 settembre. Ancora l'amico Abdul Jabar Naimi: "Karzai aveva chiesto mille volte agli americani di intervenire ma loro avevano sempre aspettato. Quel giorno ero in macchina a Islamabad, Karzai era nei guai perché il Pakistan voleva dichiararlo nemico dello Stato per i suoi discorsi contro i talebani che loro appoggiavano. Mi chiese di correre subito da lui, nella Guest House dove viveva. Lo trovai paralizzato davanti al televisore seduto con le gambe incrociate, stava guardando un film. Gli chiesi se gli sembrava il caso. Rispose che l'America era stata attaccata e allora tutto sarebbe cambiato. Che bisognava seguire con calma gli eventi". Otto anni dopo Karzai è l'uomo più solo e importante dell'Afghanistan. Sul suo reale peso lo stesso amico Naimi avanza dubbi: "Credete veramente sia libero di fare quello che vuole con gli americani che gli soffiano sul collo, i pakistani, i Signori della guerra, gli iraniani? Riuscire ad accontentare tutti è difficile. In questo Paese si combattono tante guerre, può solo cercare di contenere il disastro che lo circonda. Nessuna persona, da sola, è la soluzione. Ci sono troppi interessi in gioco". E allora Karzai è l'uomo seduto sopra il vaso di Pandora perché non si scoperchi. Così media coi Signori della guerra e li porta in Parlamento, per mantenere il consenso promette ruoli ministeriali a destra e a manca anche a personaggi assai chiacchierati. Uno di questi è l'ex governatore di Kandahad Sher Muhammad Akhunzada, noto per i suoi traffici di droga, che ha curato la campagna elettorale di Karzai nel sud. Un altro è l'ex ministro della difesa Fahim, che raccoglie i voti dei tagichi, era il vice del leggendario comandante Massud, capo dell'Alleanza del Nord, e ha ottenuto la candidatura a vice presidente . Non si sa che ruolo giocherà invece il generale Abdul Rashid Dostum, accusato di crimini contro l'umanità, detestato dagli americani, confinato in Turchia, tornato a Kabul per sostenere Karzai. Nel quadro c'è anche Hekmatyar, che durante la guerra civile ha raso al suolo mezza Kabul, si è guadagnato il nome di fanatico quando negli anni Settanta lanciava acido sulle donne che andavano in giro senza velo. Hekmatyar, nascosto tra le montagne del Pakistan con una taglia di milioni di dollari sulla testa, ha un inviato che gira per la capitale nel tentativo di strappare un accordo col presidente.
Se Hamid è indaffarato nel tenere a bada elementi di questo calibro, i suoi familiari pensano invece al business. Non sempre in modo trasparente. Il dipartimento antidroga americano ha raccolto, da 5 anni a questa parte, molte prove del coinvolgimento del fratello minore, Ahmed Wali, 48 anni, nel traffico di stupefacenti. Secondo queste accuse, sarebbe il capo del cartello di Kandahar. Il fratello maggiore, Mahmoud, è invece il protagonista di un exploit economico che, se fosse stato conseguito con mezzi leciti, lo farebbe assurgere al rango di mago degli affari.
Da proprietario di alcuni modesti ristoranti negli Stati Uniti, in poco tempo il suo patrimonio si è dilatato fino a comprendere: il 50 per cento della concessionaria che vende in esclusiva la Toyota in Afghanistan (la macchina più diffusa); la maggioranza delle azioni della Banca di Kabul; quattro miniere di carbone; l'unico cementificio del Paese e una fiorente azienda edile. Per la forza dei legami familiari, che in Afghanistan

Sua moglie, Zeenat, una ginecologa conosciuta nei campi di Quetta, è invisibile. "A mio marito non piace che io esca", ha confidato a un'amica. Insieme hanno avuto un bambino Mirwais, solo due anni fa, quando lui ne aveva 49. La coppia vive nella residenza all'interno dell'Arg, il palazzo presidenziale, una struttura presidiata giorno e notte da centinaia di agenti di polizia. Le sue guardie del corpo sono spesso americane, perché non si fida neanche dei suoi uomini (è scampato ad almeno quattro attentati). I vestiti sono il suo vizio, come le scarpe inglesi. Preferisce il tè al caffè ed ha continuamente in bocca, al posto delle caramelle, delle pastiglie effervescenti di vitamina C. Uno dei suoi politici di riferimento è il Mahatma Gandhi, "un modello di tolleranza". Dietro alla scrivania tiene due foto del figlio e una del re Zahir Shah, al quale era profondamente affezionato: nel 2002 andò di persona a Roma, dove era in esilio, per riportarlo in Afghanistan. E per dire delle sue contraddizioni: si commuove fino alle lacrime quando parla delle vittime civili del confitto afgano eppure riesce a siglare accordi con cruenti assassini, alcuni dei quali hanno tentato di ucciderlo. Ma Karzai è ancora qui e probabilmente resterà in carica per i prossimi cinque anni.