Ha celebrato la nomina a ministro in grande stile, in uno dei più esclusivi ristoranti di Palermo, pesce e vini pregiati, La Scuderia accanto all'Ippodromo, lo stesso dove negli anni Sessanta Vito Ciancimino, all'epoca assessore democristiano ai Lavori pubblici, trascorreva i pranzi della domenica a ricevere i capimandamento. Per Saverio Romano, neo-titolare dell'Agricoltura, una sontuosa tavolata, un festeggiamento spettacolare come non si vedeva da tempo, amici, mogli, l'intero Pid (Popolari Italia Domani, il suo partito nato dopo la scissione dall'Udc), clienti accaldati e felici. L'occasione merita: perché, vista dal monte Pellegrino, l'ascesa di Romano al governo è molto più dell'ennesimo rimaneggiamento di poltrone ministeriali. Per la Sicilia è la chiusura di una fase convulsa, di giochi sporchi, di guerre sotterranee tra i proconsoli berlusconiani. Ed è l'apertura di una nuova stagione, con il Clan dei siciliani ricomposto al vertice con i suoi uomini-chiave che puntano a pesare tanto, tantissimo, nell'attuale Pdl e nei futuri equilibri nazionali. Almeno quanto contavano nella Dc i loro predecessori Gioia-Lima-Ciancimino, con il loro 45 per cento di voti: forse molto di più.
"La Sicilia per Berlusconi si stava trasformando in una terra minata. Rischiava di farsi molto male, come Andreotti e la Dc prima di lui", mostra soddisfazione un notabile. "Non è stato facile, ma ora con l'arrivo di Romano al ministero i tasselli si sono finalmente rimessi a posto". E poiché è vero che la Sicilia è isola di voci, sussurri, sospetti, "la contraddizione la definisce", avvertiva Leonardo Sciascia, "ma un fatto è un fatto: non ha ambiguità, non contiene il diverso e il contrario", per provare a spiegare la portata dell'operazione bisogna partire da un fatto, anzi, da due.
Non erano passate neppure tre ore dal tormentato giuramento di Romano, con la nota irrituale del Quirinale che rendeva pubbliche le "riserve" per le "gravi imputazioni" a carico del politico siciliano (un'inchiesta per concorso esterno in assocazione mafiosa non ancora archiviata), che arrivava il primo atto formale del nuovo ministro: la nomina a suo capo gabinetto del magistrato della Corte dei conti Antonello Colosimo. Già sfiorato dalle indagini sulla Cricca della Protezione civile per l'assidua e partecipata amicizia con Francesco Piscicelli, l'imprenditore che al telefono rideva la notte del terremoto dell'Aquila, oggi sotto processo a Roma per l'inchiesta sui grandi appalti che ha coinvolto il coordinatore del Pdl Denis Verdini come suo sponsor presso Palazzo Chigi.
La nomina a tempo di record di Colosimo ha stupito i palazzi romani. Ed è stata collegata al blitz che ha portato Romano al ministero dell'Agricoltura. Dopo mesi di trattative serrate, la situazione si è sbloccata per il via libera decisivo di tre personaggi che usano tenersi in stretto contatto: il già citato Verdini, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianfranco Miccichè, fino a quel momento ostile alla promozione di Romano, più la benevolenza del cervello di ogni mossa berlusconiana sulla scacchiera siciliana. Lo stesso nome da decenni: Marcello Dell'Utri.
Eppure, in partenza, l'ingresso di Romano nel governo era stato caldeggiato dagli altri due uomini chiave del Pdl siciliano: il presidente del Senato Renato Schifani e il ministro della Giustizia Angelino Alfano. Romano, ultimo leader dei giovani democristiani nell'isola con Alfano in squadra, sembrava l'uomo ideale per sfilare ai centristi di Pier Ferdinando Casini e al governatore Raffaele Lombardo quel che resta della Balena bianca isolana. Ma proprio per questo la sua ascesa era vissuta malvolentieri da Miccichè, in rotta di collisione con Schifani e con Alfano e intenzionato a mettersi in proprio con il partito Forza Sud.
Uno scontro che ha portato a una situazione paradossale. Non che finora l'isola non sia stata rappresentata in termini di poltrone a Roma. Anzi: oltre a Schifani, Alfano e Miccichè nel governo c'è la siracusana ministra dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo, cui andrebbe aggiunto il catanese d'origine Ignazio La Russa. E ben sistemati al Senato sono i presidenti di commissione Carlo Vizzini (Affari costituzionali), Enrico La Loggia (Bicamerale per il federalismo), Antonio D'Alì (Territorio), più Domenico Nania (vice-presidente del Senato), Simona Vicari (segretaria d'Aula)...
Per farla breve, su 26 senatori eletti in Sicilia, in 21 (compresi gli esponenti dell'opposizione, da Anna Finocchiaro del Pd a Gianpiero D'Alia dell'Udc) occupano un qualche istituzionale. Senza dimenticare gli eletti in altre regioni: per esempio il presidente della commissione per la Biblioteca di Palazzo Madama. Dell'Utri, ancora lui.
Nonostante la quantità di posti, però, la Sicilia poteva diventare un Vietnam per il Pdl berlusconiano. Colpa della rottura con Lombardo e il suo Mpa, alleati in consiglio regionale con una variopinta coalizione che va dal Pd ai finiani di Fabio Granata all'Udc rimasto fedele a Casini. E colpa delle divisioni interne al Pdl, Miccichè contro Alfano, Schifani in fredda con Dell'Utri.
Con il suo nume tutelare Salvatore Cuffaro uscito definitivamente di scena, dopo la condanna a sette anni per favoreggiamento aggravato, la leadership dei post-democristiani è finita nelle mani di Romano. Che si è inserito con consumata spregiudicatezza all'interno della partita nel Pdl. E ora che l'operazione sembra riuscita, in Sicilia la riassumono così: in cambio della poltrona ministeriale Romano ha rinunciato a giocare un ruolo esterno al Pdl, di federatore dei frammenti democristiani sparsi nei vari partiti, potenziale concorrente dei berlusconiani. Alle prossime elezioni porterà il suo pacchetto di consensi nel Pdl. La nomina di Colosimo sta lì a dimostrare quanto sia stretto il rapporto tra il nuovo ministro e il gruppo di testa che dirige il partito azzurro. Berlusconi gli sarà grato: l'isola è di nuovo blindata. E tutti i nemici che si contendono la guida del Sicilia Power potrebbero essere accontentati.
Miccichè non ha più rivali per coronare il suo sogno, la presidenza della regione Sicilia. Alfano, "l'enfant gâté di Palazzo Grazioli", può proseguire la sua marcia di avvicinamento a Palazzo Chigi come delfino di Berlusconi. Schifani, per ora, è rimasto defilato, ma i suoi amici dicono di lui che è molto fortunato: fortunato a essere eletto senatore nel '96 (doveva candidarsi al consiglio regionale), fortunato a essere nominato capogruppo al Senato e non presidente di commissione (il regista fu Miccichè, ricompensato con un voltafaccia che pesa nei loro rapporti), fortunato nella guerra contro il governo Prodi. Un uomo così fortunato potrebbe diventare premier di un governo istituzionale se Berlusconi dovesse cadere dopo una condanna a Milano. E a quel punto, di fortuna in fortuna, il presidente che sulle agenzie si fa chiamare"seconda carica dello Stato" potrebbe pensare a salire di grado, verso il Colle più alto.
Per Dell'Utri, indicato da molti come il regista di questa pax che consegna ancora una volta la politica italiana nelle mani dei siciliani, c'è l'attesa della sentenza della Cassazione che concluderà il suo processo per associazione mafiosa. La carica dell'erede è vacante. Anche se, dicono, in realtà il successore è stato già individuato. E che per questo il neo-ministro Romano abbia di che festeggiare, alla Scuderia.