La nuova saga delle tangenti rosse alla milanese parte da una lettera minatoria che un imprenditore custodiva in originale nel suo portafoglio. È una calda mattinata di giugno del 2010 quando la Guardia di finanza mette le mani su quel documento che, vent'anni dopo Tangentopoli, sta facendo riesplodere la questione morale nel Pd. I destinatari sono elencati uno sotto l'altro: "Egregio signor Filippo Penati", "Egregio signor Bruno Binasco".
Penati è l'uomo forte del Pd in Lombardia, capo della segreteria nazionale di Pier Luigi Bersani. Binasco è il factotum del gruppo Gavio, un manager spregiudicato che, dopo l'arresto ai tempi di Mani pulite, torna alla guida di un colosso ancor più forte, che tra autostrade e costruzioni fattura più di sei miliardi. Quelle 30 righe scritte al computer li accostano come se tra affari e politica non ci fosse alcuna diversità. L'esordio è fulminante: "Signori, come a voi ben noto, il sottoscritto, nel corso degli anni, a partire dal 1999, ha versato a vario titolo, attraverso dazioni di denaro, a Filippo Penati, notevoli somme di denaro".
"Il sottoscritto" è Piero Di Caterina, titolare di un'azienda di trasporti (Caronte srl) e proprietario di immobili, che ha fatto fortuna con appalti e contratti pubblici nell'area di Sesto San Giovanni, l'ex città operaia dove Penati ha costruito la sua carriera: assessore dall'85 al '93, sindaco dal '94 al 2001. La lettera nel portafoglio è l'originale del testo copiato in una e-mail del 16 aprile 2010, effettivamente inviata a Penati e Binasco: nel suo ufficio, perquisito dai pm di Milano, l'imprenditore si è tenuto anche l'avviso di lettura. Il contenuto è minatorio, ma i destinatari non denunciano nulla.
L'imprenditore premette di aver fatto "vari tentativi di riavere" un fiume di soldi versati per anni, a suo dire, "a Penati o a persone da lui indicate", ma protesta di averne recuperato solo una parte. Il problema, aggiunge Di Caterina, sembrava risolto con l'intervento del "gruppo Gavio", concordato dopo vari incontri "in Provincia e negli uffici di Tortona". Come? Con uno stranissimo contratto preliminare: nel novembre 2008 il manager Binasco gli versa "una caparra di due milioni", impegnandosi a comprargli un immobile a Sesto entro il 2010. Alla scadenza, però, rinuncia. E così perde l'anticipo, che a quel punto resta legalmente in tasca a Di Caterina. Per quel singolare accordo, la lettera chiama in causa anche un famoso architetto, Renato Sarno, che l'imprenditore della Caronte si azzarda a descrivere come "da tempo coinvolto negli interessi di Penati".
Di quei due milioni lordi, però, Di Caterina lamenta di aver messo in cassa solo una cifra "dimezzata dalle imposte". Per cui reclama da Binasco "ulteriori versamenti", sempre per tappare i presunti debiti di Penati. Il titolare della Caronte ottiene un nuovo incontro nella sede del gruppo Gavio, "il 22 aprile 2009", ma Binasco, questa volta, si rifiuta di pagarlo "con atteggiamento intimidatorio e minaccioso, ricordando i suoi trascorsi di ex galeotto". Il finale col botto è la letteraccia scoperta 14 mesi dopo.
Di Caterina, in quel momento, è indagato a Milano solo per un complicato giro di fatture false: triangolazioni con grossi imprenditori per creare fondi neri. Nella lettera invece si autodescrive come una specie di tesoriere-ombra di Penati, che dispensa contanti al politico e si fa restituire i soldi da altri imprenditori, beneficiati o ricattati. "Calunnie", replica Penati, che conferma "fiducia nella magistratura". E solo per "evitare problemi al partito", si dimette in 24 ore dalla vicepresidenza del consiglio regionale e dalla direzione nazionale del Pd (ma non dalla carica elettiva da diecimila euro al mese).
Per il popolo di sinistra che ha appena riconquistato Milano in nome della Costituzione, la sberla è pesante. Nonno deportato e ucciso dai nazisti a Mauthausen, padre tornitore alla Garelli, Penati ha scalato la politica dal basso. Insegnante e assicuratore dell'Unipol, il "ragazzo del 1952" s'iscrive al Pci nel '75. Fa gavetta nell'ala destra, nella corrente migliorista che verrà decimata da Tangentopoli. Nel '94, quando Berlusconi espugna Sesto, è lui a riportare la bandiera rossa nella "Stalingrado d'Italia".
Rieletto sindaco trionfalmente, dal 2001 dirige il partito a Milano e nel 2004 diventa presidente della Provincia, battendo a sorpresa la berlusconiana Ombretta Colli. Nel 2009 e 2010 inanella due sconfitte: in Provincia vince Podestà, in Regione Formigoni. E allora lo premia il partito: coordinatore della mozione che, con l'appoggio di D'Alema, porta Bersani al vertice del Pd.
Di Caterina trova il coraggio civile di accusarlo solo dopo essersi visto indagare e perquisire. Nei primi verbali racconta di aver finanziato le spese politiche ed elettorali di Penati dal '93 al 2004, fino a raggiungere medie di 30 mila euro al mese: soldi al partito non solo a Sesto, ma "anche per Milano". "Si è trattato di pagamenti in cambio di favori", ha ammesso, parlando anche di presunte corruzioni fino al 2008 per sbloccare i pagamenti alla sua ditta di trasporti: duemila euro al mese, per un totale di 100 mila, versati al capo dello staff di Penati in Provincia, che invece nega tutto.
L'aspirante pentito Di Caterina parla sempre di contanti, non riscontrabili. Ma dopo il sequestro della lettera, nel luglio 2010 ritrova la memoria anche Giuseppe Pasini, che era il proprietario delle aree dell'ex acciaieria Falck (1,3 milioni di metri quadrati) quando Penati era sindaco. L'immobiliarista, ora in gravi difficoltà, si presenta "spontaneamente" in procura a Milano per dichiararsi vittima di concussioni: oltre 3,7 milioni versati tra il 2000 e il 2001, a suo dire, a persone designate da Penati.
Per l'esattezza: 1,6 milioni a due consulenti (indagati) della coop emiliana Ccc; gli altri all'estero, a due presunti tesorieri occulti del politico. Il primo è Giordano Vimercati, fratello di un senatore del Pd e braccio destro di Penati fino al 2006, quando il sodalizio si rompe "per divergenze politiche" non chiarite. Pasini lo accusa di aver intascato un milione in Svizzera, in contanti, ma Vimercati nega. Il problema è che il secondo emissario è proprio Di Caterina, che invece incassa con bonifico in Lussemburgo e ora conferma la successiva triangolazione con Penati, almeno a parole. Anche Pasini non è il massimo dei riscontri. Oltre a chiamare il suo conto "Pinocchio", è un rivale politico: candidato sindaco sconfitto, è capogruppo del centrodestra a Sesto.
"Non ho conti esteri, non ho mai ricevuto denaro da imprenditori", contrattacca ora Penati in Regione: "La curiosa, singolare accusa di aver restituito tangenti di 7 o 10 anni fa, mi arriva da imprenditori indagati per essersi scambiati ingenti somme tra loro con fatture false. Questa è la verità".
Penati sembra quasi sfidare i pm a indagare. Di Caterina fu perquisito come intermediario di fatture false per almeno 700 mila euro: soldi usciti dal gruppo Zunino per entrare in società-schermo di Giuseppe Grossi, il re degli inceneritori targati centrodestra. Zunino è stato indagato e Grossi già condannato per il maxi-scandalo immobiliare di Milano Santa Giulia. Prima di dover rivendere per debiti, Zunino aveva comprato anche l'ex Falck proprio da Pasini e puntava all'affare-bis sempre in coppia con Grossi. Già allora si scoprì che Grossi riciclava fondi neri sul conto estero della moglie di un onorevole Pdl, Giancarlo Abelli. Ora, per capire chi abbia intascato i soldi per Sesto, i magistrati di Monza hanno ricevuto da Milano un archivio pieno di cifre e nomi in codice, sequestrato (insieme alla famosa lettera) proprio a Di Caterina. Un dvd con tutta la contabilità nera del signor Caronte.
L'inchiesta ora punta anche a chiarire perché un manager del calibro di Binasco abbia regalato una caparra di due milioni per un immobile, senza acquistarlo. Per capirlo, forse bisogna tornare al luglio 2005, quando la Provincia di Penati comprò il 15 per cento della Milano-Serravalle, un'autostrada già pubblica, garantendo una spettacolare plusvalenza al gruppo Gavio: secondo la Corte dei conti, almeno "76 milioni in più del prezzo di mercato". All'epoca la procura archiviò una denuncia del sindaco milanese Albertini, fondata solo su una sospetta coincidenza di tempi con la "scalata rossa" tentata da Unipol sulla Bnl. Ma oggi i pm hanno una nuova pista per capire cosa ci azzeccasse Penati con Binasco: i soldi targati Caronte.