La condanna a vita è incivile come una condanna a morte. Per questo è nata un'associazione per eliminarla. Guidata da un grande medico. Che qui ne spiega le ragioni
Quest'anno alla Conferenza Science for Peace di Milano parleremo di dignità della persona, di un mondo più equo e di convivenza in diversità e libertà: tre temi legati alla difesa dei diritti umani fondamentali. Perché questi tre argomenti legati alla scienza e alla pace? Perché la pace è il primo dei diritti dell'uomo e la condizione di rispetto di tutti gli altri - diritto alla conoscenza compreso - e la scienza, io credo, ha il dovere morale di promuoverlo. Non ho mai creduto in una ricerca scientifica che non si occupi delle ricadute sociali delle sue scoperte, e anzi ho sempre sostenuto che la scienza (nel mio caso scienza medica, ma lo stesso vale per la fisica, la chimica, e così via) quando conquista un nuovo sapere sull'uomo e la sua natura, abbia il dovere di diffonderlo, condividerlo e offrirlo al dibattito pubblico, perché sia applicato alle varie discipline.
La ricerca scientifica ha dimostrato che la violenza non fa parte della biologia dell'uomo. Lo provano le indagini genetiche, antropologiche e biologiche. Il messaggio del nostro Dna è la perpetuazione della specie: procreare, educare, abitare, fare sapere, costruire ponti e legami che rendono più sicura la vita. In sintesi il nostro genoma "pensa" l'essere, non la distruzione. Uccidere e fare guerre rappresenta un'infrazione al messaggio genetico, che ci spinge invece verso relazioni costruttive. Promuovere la pace significa quindi sostenere il disarmo, incoraggiare l'abolizione dei conflitti armati, fare opposizione a tutte le forme di violenza, soprattutto se istituzionalizzate. Prima fra tutte la pena di morte, perché è un omicidio di Stato, che inevitabilmente genera una distorsione. Se lo Stato uccide, lo posso fare anch'io: lo Stato non può uccidere in nome dei cittadini rendendo omicida tutti quanti rappresenta. Ma anche l'ergastolo a vita (ostativo) è una forma di pena di morte o una pena fino alla morte, perché una persona condannata a morire in carcere, entra in cella per affrontare un'agonia lenta e spietata. Tanto dolorosa, da far scrivere a Carmelo Musumeci, un ergastolano con cui intrattengo un carteggio da molti mesi: «Fatemi la grazia di farmi morire».
Per questo Science for peace si è schierato con quanti si impegnano perché l'ergastolo a vita venga eliminato dal nostro sistema giudiziario. È un gruppo appena nato, di cui fanno parte Giuliano Amato, Bianca Berlinguer, Andrea Camilleri, Don Luigi Ciotti, Erri de Luca, Margherita Hack, Franca Rame, Stefano Rodotà, e altri diciassettemila cittadini che hanno già sottoscritto un manifesto contro l'ergastolo. Le motivazioni vanno ben di là della questione giuridico-legislativa: sono ragioni morali, etiche, culturali e anche scientifiche. Gli studi più recenti in neurologia hanno dimostrato che il nostro sistema di neuroni è plastico e si rinnova, perché il cervello è dotato di cellule staminali proprie in grado di generare nuove cellule. Questo dimostra scientificamente che la persona che abbiamo messo in carcere, non è la stessa vent'anni più tardi e che per ogni uomo esiste per tutta la vita la possibilità di cambiare, evolversi, adattarsi.
Chi ha visto il film di Matteo Garrone "Reality", non può immaginare che l'attore protagonista, un ergastolano nella realtà, venga rinchiuso in cella per sempre alla fine del set. Noi crediamo nel principio di una giustizia tesa al recupero e la rieducazione della persona, che eviti trattamenti contrari al senso di umanità, e dignità della persona, come recita la nostra Costituzione. Ma una giustizia che condanna "per sempre" è soltanto vendetta, perché esclude la possibilità di un ravvedimento e un reinserimento nella vita sociale. È una giustizia che punisce senza capire le cause profonde di un crimine, e così facendo perde anche la sua efficacia. Molti giuristi sostengono che la criminalità gioisce di fronte ad una condanna di ergastolo, perché sa che la persona non verrà recuperata e non potrà dunque agire sfavorevolmente al sistema criminale. Sappiamo, tuttavia, che scardinare dall'opinione pubblica il principio della vendetta richiede un grande sforzo collettivo. La non-violenza non è questione giuridica o politica, ma prima di tutto di cultura, e la nuova cultura nasce soltanto dal confronto delle opinioni, dal dibattito e lo scambio fra diverse forme di pensiero, come ci impegneremo a creare nella Conferenza di Milano.