A vent'anni sognava di fare l'archivista all'Ansaldo, felice topo di biblioteca a catalogare carte, decifrare lettere, ricostruire dalla minuta documentazione la storia industriale di Genova. Ora che di anni ne ha 55 Marco Doria si troverà invece, pronosticano i sondaggi, a governare una delle città più complicate d'Italia, con Ansaldo Energia a rischio di dismissione, Fincantieri senza più una commessa quando fra un mese consegnerà l'ultimo transatlantico, un territorio dissestato, una viabilità tra le più astruse, una politica alla frutta, una Chiesa impicciona e i tifosi di calcio scatenati a svilire in piazzate ciò che resta della gloria sportiva. Per quale bizzarro incrocio di circostanze e casualità questo marchese, professore e comunista d'antan (che in tutto ciò che fa e nel modo in cui lo fa non potrebbe essere più marchese, professore e comunista d'antan di com'è) è diventato "il Pisapia genovese" o, parola di don Andrea Gallo, "la brezza che infine s'è alzata, un vento che cresce, parlo da marinaio, e riempirà le vele, risveglierà le coscienze, ricostruirà una democrazia che si sta squagliando"?
Neanche il timido archivista si fosse d'improvviso stracciato la camicia riscoprendo i panni e l'animo dei suoi antenati condottieri, tutta la sfilza dei Doria che hanno fatto Genova: Andrea l'ammiraglio, padre della Repubblica che guerreggiò contro i turchi, i mori, i francesi e i pirati; Gianbattista che quattrocento anni fa rifece l'acquedotto, corteo storico il 1 maggio e annesso comizio di Doria sull'acqua bene di tutti; fino a suo padre Giorgio, il "marchese rosso", diseredato quando nel '53 si iscrisse al Pci, vicesindaco di Genova giunta Cerofolini. Invece manco per niente. Nessuna repentina trasformazione, tutto sembra scorrere lineare nella vita di Marco Doria, i colpi di testa non sono il suo forte. Doria candidato del centrosinistra, che alle primarie del 12 febbraio sbaraglia col 46 per cento Marta Vincenzi e Roberta Pinotti impegnate nell'Eva contro Eva di casa Pd, è lo stesso Doria che a vent'anni scartabellava carte alla Fondazione Ansaldo, uguale al Doria consigliere comunale Pci dal '90 al '93, del quale nessuno ricorda un battibecco o uno strillo di troppo, come al cattedratico di Storia economica che è diventato nel 2000 e tuttora è, e una ventina di tesi da seguire se l'è tenute. Niente sbalzi tra un ruolo e l'altro, né aggiustamenti al contesto o all'interlocutore. Alla prima uscita, trecento ad ascoltarlo al Cral dei portuali, attacca con Tucidide e la guerra del Peloponneso. Tra gli operai alla mensa Ansaldo la mela la sbuccia come a casa sua, senza toccarla, solo coltello e forchetta. Sul palco del teatro Gilberto Govi a Bolzaneto, col presentatore e il complessino che s'ingegnano a inventare un minimo di spettacolo, lui risponde con lo stesso incedere dei suoi interventi al Consiglio della Fondazione San Paolo, dove sedeva fino ad aprile. E al leghista Edoardo Rixi, che al primo dibattito dice: "Credo possiamo darci del tu", lui risponde: "Non ne vedo la necessità". Scuola Togliatti, che gelò un militante espansivo con la frase: "Compagno, possiamo anche darci del lei".
Persino quando racconta la sua vita Marco Doria lo fa come se sciorinasse una vita altrui con l'occhio dello storico: non freddo, questo no, ma attento, controllato. "Sono cresciuto in un bell'appartamento borghese zona Albaro, una casa molto aperta, ci venivano storici come Fernand Braudel e Carlo Maria Cipolla e politici come il responsabile cultura del Pci Aldo Tortorella. Democrazia e antifascismo li ho respirati sin da bambino, con mia madre Nora Goldschmiedt, borghesia ebraica veronese e una prozia deportata ad Auschwitz, e con mio padre, che la conobbe quando faceva il servizio militare. Una famiglia coesa, la nostra". A dieci anni era un ragazzino informato: "Sapevo cos'era la guerra in Vietnam, ho netto il ricordo di Smith e Carlos che alzano il pugno alle Olimpiadi di Città del Messico 1968, e lo sconforto dei miei genitori quando i russi invasero la Cecoslovacchia". Erano lui e suo fratello Giuliano, di due anni più giovane, ora conservatore del Museo civico di Storia naturale intitolato, neanche a dirlo, al prozio Giacomo Doria, esploratore, presidente della Società geografica italiana e, ops, sindaco di Genova per cinque mesi nel 1891.
"Marco era un ragazzo mingherlino, con occhi profondi come suo padre Giorgio, cui somiglia nel gesticolare quando respinge un'affermazione o scettico alza un sopracciglio", racconta Silvio Ferrari, scrittore, assessore Pci dal '75 al '93, uno dei sette che a fine settembre, con quindici righe al "Secolo XIX", lanciarono la sua candidatura; "divenne un po' più robusto solo quando cominciò a praticare boxe e pallanuoto". Per difendersi? Compagni invidiosi del marchesino? Complicato quel nome in una città dove si chiamano Doria strade, ponti, scuole, alberghi, palazzi e una squadra di calcio? "Niente del genere", risponde l'interessato: "La storia della famiglia l'ho scoperta verso i 7-8 anni, la pallanuoto l'ho praticata dai 14 ai 19 anche in prima squadra fino alla serie C, la boxe nei due anni successivi. Lo sport mi piace perché è formativo, specie se fatto agonisticamente: aiuta a rispettare le regole e a darsi delle regole, a mettersi alla prova, all'autodisciplina". Tornerà utile ora, azzardi. Ma non attacca: "Non vivo le elezioni come una competizione sportiva, l'impegno civile è individuale ma in una dimensione collettiva", eccetera. Ligio, controllato, nei secoli fedele: giusto Beppe Fioroni il catto-Pd può scambiarlo per un pericoloso sovversivo. Tra i sette che hanno lanciato la candidatura Doria c'è il pallanuotista Alessandro Ghibellini, olimpionico della Pro Recco anni Settanta, ora avvocato di grido: dieci anni più vecchio, si allenava col giovane Doria nella piscina di Albaro.
Intanto però l'adolescente s'era iscritto alla Fgci. Nel 1971, quattordicenne, in 4 ginnasio (sì, anche il liceo si chiamava Andrea Doria). "Un amico mi chiese di distribuire volantini, poi presi la tessera. Nessuno in famiglia fece pressioni". Rimarca l'autonomia delle sue scelte, pur così simili a quelle di suo padre: entrambi storici e professori universitari, Pci poi per un po' vicini a Rifondazione, ritiratisi dalla politica attiva appena deciso che una stagione era finita. Giorgio nel '76 dopo tre anni da vicesindaco, lui nel maggio '93 dopo tre anni in Consiglio comunale dov'era capofila degli ingraiani contrari alla svolta di Occhetto: "Fu il giorno in cui arrestarono il sindaco Claudio Burlando, in seguito assolto", ricorda Ferrari; "Marco, con la categoricità di giudizio che lo distingue, sostenne che dovevamo sciogliere il Consiglio. E così facemmo".
La sua prima avventura politica, chiusa quel giorno, era cominciata come consigliere di circoscrizione: era il '78, aveva 21 anni, tirava di boxe e studiava Storia a Lettere e Filosofia. Tutti 30 e 30 e lode, per la tesi nell'81 in Storia contemporanea va a far ricerche all'Archivio Ansaldo. "Arrivò", racconta Alessandro Lombardo, poi direttore per un decennio, "e mi disse: "Tre anni fa, in facoltà, ero io quel ragazzo attorniato da un gruppetto di Autonomia operaia". Mi ricordai: stava in posizione da boxe e non indietreggiava, io l'avevo affiancato, quelli se n'erano andati". Lombardo è anche il tesoriere della sua campagna elettorale: vanta il costo delle primarie contenuto in 13 mila euro raccolti con sottoscrizioni, calcola in 35 mila i soldi spesi finora per le amministrative, con previsione sugli 80 mila. Sua moglie Carla Scarsi, esperta di allattamento, è una delle due responsabili comunicazione. Doria è uomo dalle amicizie durature.
Servizio militare in Fanteria a Asti, borsista all'Ansaldo per la Fondazione Einaudi, tesi di dottorato all'Istituto universitario di Fiesole, pubblicata da Franco Angeli: 400 pagine fitte di dati e grafici. Si sposa con Mariella Del Lungo, insegnante: a celebrare, in municipio, l'amico Ferrari. Primo figlio, Giorgio come il nonno, nell'86: laureando in Scienze della comunicazione, è uso a lavoretti da barista e magazziniere. Dalla seconda moglie, Claudia Rotondi, docente di Economia dello Sviluppo alla Cattolica di Milano, conosciuta a un convegno sulla storia delle infrastrutture urbane e sposata nel '99, ha due figlie, Anna e Clara, di 11 e 9 anni: si scordino che faccia la Carlà della campagna di suo marito.
In quegli anni, Doria è insegnante di italiano e storia all'Itis Majorana. Finché nel '95 diventa ricercatore a Economia, poi associato, e nel 2010 vince il concorso da ordinario. E la politica, dopo il '93? "Teneva lezioni di economia politica nelle sezioni del partito e in Cgil", racconta Tirreno Bianchi, console dei Carbonìn, la più antica compagnia di portuali: "Un po' timido, aveva però, per via del padre e per le sue spiegazioni chiare, un feeling speciale coi vecchi compagni, specie col gruista e il semoventista del servizio d'ordine". Senza emolumenti anche il lavoro di direttore scientifico dell'Istituto storico della Resistenza di Genova, anni Novanta. Ai cortei del G8 2001 c'è: "Ma non all'assalto alla zona rossa", precisa Doria.
A proporlo per il Consiglio della Fondazione San Paolo è però un democristiano, Felice Negri, presidente Confartigianato, in Camera di commercio: "Da imprenditore, voglio un sindaco che amministri, non uno che faccia ideologia a rischio di provocare tumulti. Così ragiona anche buona parte della borghesia genovese". Mica male come endorsement, per il candidato di Nichi Vendola e del prete più rompiscatole della città, don Andrea Gallo: che rosicchiando il toscano attacca sia la Chiesa ufficiale, "non leale, vuole sindaco un cattolico Opus Dei come Pierluigi Vinai del Pdl", sia l'invadenza dei dinosauri Pd: "Ma che ci vengono a fare i D'Alema e i Fassino, cos'hanno da dire, devono solo scomparire, via!". Al comizio di D'Alema, lunedì 23, Doria non s'è fatto vedere: "Avevo impegni presi in precedenza".
Un piccolo giallo la nascita della candidatura Doria, ora rivendicata da Burlando persino a un pezzo di Pd. Fin dalla primavera i genovesi di Sel, Quaranta, Nicolini e Crovo, erano alla ricerca di un candidato di bandiera. Doria lo contattano ad agosto, lui confida che ci sta pensando all'amico Ferrari. Questi con altri sei stende l'appello. Don Gallo legge e si entusiasma: "Mai visto prima, neanche sapevo chi fosse. Ma con quel padre, e quei sette a garantire, ho capito che solo lui poteva salvarci", racconta. A dicembre gli cede come sede i locali della libreria della Comunità San Benedetto in pieno centro, e per l'organizzazione il suo braccio destro Domenico Chionetti. Doria si compra finalmente un cellulare, non ne aveva mai avuto uno.
Passi brevi, per carità: lo accende solo dopo mezzodì. Poi le primarie, la vittoria, la sfida con Enrico Musso, civico di centro, senatore ex Pdl, già avversario di Marta Vincenzi: come Doria, mancino, odiatore del fumo e favorevole alla moschea, stanza sopra la sua all'Università, dove insegna Economia dei trasporti. Musso attacca Doria come "grondivago, "sì, no, vedremo" sul progetto di gronda autostradale", su quanti alloggi possiede e quanto spende in manifesti: "I conti del marchese non tornano", ironizza. Forse teme l'effetto Versailles, fascinazione popolare sottotraccia per le stigmate della casata. "Ma per carità, nel XXI secolo!", nega reciso il candidato Doria. Sarà.
Per la cronaca, il vero nome di Palazzo Tursi, da un secolo e mezzo sede del municipio di Genova, è in realtà, dal 1597, Palazzo Doria-Tursi. Se non altro non ci sarà bisogno di cambiare lo stemma.