Consulta, dietro la fumata nera
c'è il caos nel Palazzo
Dopo la decima votazione parlamentare, e giorni di trattatie, il ticket Violante-Bruno ha mancato il quorum per la Corte Costituzionale. Dallo spettro (rinnovato) dei 101 ai giochi per il Quirinale. Dalle resistenze al patto del Nazareno alle faide nel Pd e in Fi, ecco cosa si agita dietro il voto per eleggere i giudici
di Susanna Turco
16 settembre 2014
Lo spettro dei 101. I giochi per il Quirinale che verrà. L'ennesima prova di resistenza del patto del Nazareno. La disapprovazione di Napolitano, silenziosa e pesante come le ali di una falena. Insomma, anche tralasciando l’eventuale tragedia personale di Luciano Violante, che all’incarico punta dal 2005: alle nove di sera di lunedì, quando alla decima votazione parlamentare, dopo quattro ulteriori giorni di trattative, il ticket Luciano Violante e Donato Bruno manca il quorum dei voti necessari alla salita al “soglio” della Consulta (si fermano a 530 e 529, l’asticella dei tre quinti è 570), i fantasmi che danzano intorno alla vicenda sono talmente grossi che fa quasi tenerezza sentire il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini proclamare che “l' accordo tiene, c’é stato solo un problema legato alle assenze”, e il capogruppo Fi Renato Brunetta dire che “con un numero così elevato di voti non si abbandonano questi candidati”.
Certo, Pd e Forza Italia non li abbandonano. Violante è in crescita e si consolida, fanno notare nel Pd, avendo preso 62 voti in più rispetto alla precedente votazione. E Forza Italia si è in qualche modo ricompattata, dopo i malumori per la scelta di Catricalà, visto che Berlusconi ha dato l’indicazione di votare Donato Bruno come volevano i ribelli. Eppure ancora non basta, pesano le assenze: ieri 10 nel Pdl, 16 in Fi, 9 nell’Ncd, 6 nella Lega e in Per l’italia, 19 nel misto, 7 in Sel.
Assenze nel complesso politiche, non derubricabili a semplice casualità “tecnica”. Una specie di goccia cinese che voto a voto ha finito per far prevalere il partito del “no quorum”. Senza contare i possibili (probabili) voti in libertà nel segreto dell’urna. In totale, comunque, fanno 40 voti per candidato che i Pd e Fi dovranno trovare entro oggi alle 18, orario in cui i presidenti hanno fissato la prossima corrida. E non sarà facile. Tanto più che le candidature sono sull’orlo della cottura. In particolare, come fanno notare, per Violante diventerebbe poi “davvero difficile dopo la terza o quarta fumata nera, entrare alla Consulta” per un’altra via, “cioé come candidato del Presidente della Repubblica” che a breve dovrà indicare i suoi prescelti.
Già, Luciano Violante. Un nome che Renzi ha indicato pur restando freddino. E che provoca nel Pd malumori oltre il sussurrato: un po’ perché l’elezione dimostrerebbe quanto egli – forse unico – abbia saputo reggere anche l’urto della Rottamazione che ha portato via D’Alema, Veltroni e tanti altri; un po’ perché la salita alla Consulta, e per di più col voto bipartisan, sarebbe una buona premessa per poter entrare nel pallottoliere del prossimo inquilino del Colle più alto. Questo, almeno, raccontano nei corridoi. Che la figura porti inconfessate fibrillazioni, lo dimostra del resto la prontezza quasi ansiosa con la quale, da parte Pd, s’è fatto notare ieri che nell’sms inviato ai parlamentari di Forza Italia dai loro capigruppo non figurava il nome di Violante: come a suggerire, in anticipo e con la coda di paglia, che eventuali defezioni solo sul nome dell’ex magistrato andassero conteggiate come un “tradimento” del patto da parte degli azzurri (e non interpretate come faida democrat).
Non che in Forza Italia vada meglio, anzi. Il partito, dopo la clamorosa ribellione interna che ha portato Catricalà a ritirarsi dalla tenzone, ha anzitutto il problema di dimostrare la credibilità dei patti di interscambio che sottoscrive: di qui la scelta, da parte di Berlusconi, di puntare su Donato Bruno, vale a dire sul nome indicato dalla fronda interna. Eppure, nel voto, i malumori dei pro-Catricalà si mescolano a quelli di chi mal digerisce il governo di Verdini e del suo patto del Nazareno (sentimento analogo a quello che, rivolto a Renzi, alberga all’interno del Pd), e di chi non ama la gestione appassionata del capogruppo alla Camera Renato Brunetta. Senza contare la debolezza aggiunta dal ritorno dell’uveite negli occhi dell’ex Cav.
E Giorgio Napolitano? Non è difficile immaginare cosa possa pensare l’inquilino del Colle, rieletto nel 2013 capo dello Stato dopo che il Parlamento ebbe certificato (proprio con i 101 franchi tiratori del Pd che affossarono il nome di Prodi) l’incapacità dei partiti di trovare nuovi accordi, su nomi diversi (in fondo, è lo stesso che sta capitando per la Consulta).
Tanto più è facile, perché Napolitano ha scelto il silenzio assoluto, sia ufficiale che ufficioso. Preferendo del tutto indirettamente far ricordare ai quirinalisti d’essersi già espresso in materia, con una lettera ai presidenti delle Camere due settimane fa. Nella quale indicava l’importanza di “conseguire le convergenze fra maggioranza e opposizione necessarie” per i quorum, definiva “indispensabile” che i partiti dedicassero “l’attenzione necessaria per compiere le loro scelte e garantire l’esito positivo delle votazioni”, e li invitava a sbrigarsi: “Si tratta di adempimenti non ulteriormente differibili”, perché Csm e Consulta “saranno chiamati nei prossimi mesi ad affrontare importanti scadenze”.
Dettava, addirittura, i tempi: una settimana al massimo. E ne sono passate due. Visti i paletti, che il Parlamento sia riuscito ad eleggere ieri altri tre componenti del Csm (Elisabetta Casellati di Forza Italia, Teresa Bene del Pd e Renato Balduzzi di Scelta Civica), sui cinque ancora da indicare, pare il minimo sindacale.