Legare gli stanziamenti per la difesa al tema dell’istruzione e delle periferie è un’inversione di rotta di rilievo. Perché segna una distanza dai richiami di pancia della destra e dalla stretta sull’immigrazione proposta da Grillo. E dimostra che contro la sfida del radicalismo islamico non basta armarsi fino ai denti. Ma adesso servono i fatti (e i soldi)

Saranno pure “semplici enunciazioni di principio”, come le definisce Forza Italia, solo “tante belle parole” come ritiene la Lega o risposte da “eunuchi e pagliacci”, come reputa (con fraseologia un po’ mussoliniana) Giorgia Meloni. Comunque la si pensi, l’intenzione di legare gli investimenti per la difesa nazionale a quelli per la cultura - in una fase in cui il livello di emergenza è un appena gradino sotto quello vigente con un attacco terroristico in corso - segna a suo modo una svolta nel linguaggio politico. E una novità di non poco conto, se l’annuncio del premier non rimarrà nel novero della “narrazione renziana” ma si tradurrà in atti concreti.
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«Per ogni euro in più investito sulla sicurezza ci deve essere un euro in più investito sulla cultura. Per ogni intervento sulla cyber security ci deve essere più pulizia nelle nostre periferie. Ogni centesimo speso in sicurezza non sarà un costo ma un investimento se ci ricordiamo cosa stiamo difendendo: la nostra identità», le affermazioni del presidente del Consiglio. Che se non altro hanno il pregio di smarcare il termine “identità” dal mero identitarismo populista alla quale era stato relegato (e per molti versi regalato) dalla sinistra italiana. Per tornare a essere concepito, più che come differenza dal diverso, come un complesso di valori comune in cui c’è spazio per tutti.

Parole che segnano una profonda tanto rispetto alle ricette di pancia della Lega quanto a quelle del Movimento cinque stelle, che finora è stato silente sul terrorismo. E che quando non lo è stato ha proposto di “elevare a interlocutore” l’Isis o suggerito un “giro di vite sui permessi di soggiorno per protezione umanitaria”. Ecco perché quello del premier è un discorso che, sincero o no, guarda e parla soprattutto a sinistra. Come mostra anche il lessico utilizzato, scelto con cura e tutt’altro che casuale.

«La risposta non può essere solo securitaria» ha detto Renzi. Certo consapevole (o chi per lui) di utilizzare un vocabolo assai caro a tutto quel che si muove à la gauche del Pd. L’aggettivo “securitario” è infatti lo stesso introdotto nel linguaggio politico (e utilizzato in senso spregiativo, come in fondo anche nelle parole del premier) dalla sinistra radicale ai tempi del secondo governo Prodi, quando da ministro dell’Interno Giuliano Amato varava il “pacchetto sicurezza” contro microcriminalità, writers e lavavetri: “deriva securitaria” l’espressione immancabile. E fino a pochi anni fa era un termine ancora all’ordine del giorno in qualunque volantino dei centri sociali in cui si parlasse di immigrazione e della Bossi-Fini.

Il punto è che adesso Renzi dovrà dimostrare di credere davvero nei concetti che ha espresso. Con atti concreti e, soprattutto, un impegno economico che non si limiti ai due miliardi “per i professionisti della sicurezza e dell'educazione” annunciati nella legge di stabilità tramite lo slittamento di un anno dell’Ires. Semmai con un serio lavoro di lungo periodo. Per quanto nemmeno questo, in fin dei conti, sia un antidoto sufficiente: le banlieue parigine (per non parlare di Molenbeek, la “fucina” belga di terroristi) hanno un livello di servizi e integrazione sociale impensabile rispetto a tante italianissime periferie.

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