Dopo il primo anno il premier si sente più forte che mai. E mette 
in cantiere nuove riforme. Con un obiettivo: tutto il potere a Palazzo Chigi. Approvato l’Italicum, ora tocca a enti locali, prefetture, 
forze di polizia 
e magistratura

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La prima candelina è stata accesa in anticipo con gli ultimi arrivati alla Camera e al Senato, da Scelta civica che fu il partito di Mario Monti alle ultime elezioni. Con Ilaria Borletti Buitoni e Irene Tinagli (più Gea Schirò e Gregorio Gitti, già approdati a ottobre), il gruppo del Pd alla Camera ha toccato quota 309 deputati, superando il record dei 305 seggi che resisteva da quasi settant’anni: la Dc di Alcide De Gasperi che aveva conquistato la maggioranza assoluta il 18 aprile 1948 (con la legge proporzionale, però, non con un premio di maggioranza).

La seconda candelina sarà soffiata il 20 febbraio, al Consiglio dei ministri più importante del nuovo anno, in cui i tecnici dei vari ministeri stanno preparando un maxi ordine del giorno: va dalla liberalizzazione delle farmacie e delle assicurazioni ai decreti di attuazione del Jobs Act fino alla riscrittura del decreto fiscale nella parte che riguarda il tetto del tre per cento per gli evasori (che dovrebbe escludere la cancellazione della condanna di Silvio Berlusconi, com’era invece nella versione della vigilia di Natale).

I dati
Un anno di governo per Matteo Renzi: ecco quanto ha 'abusato' del voto di fiducia
17/2/2015
Riforme ed equilibri parlamentari. Cambiamento annunciato e trasformismo immortale. Il 22 febbraio il governo di Matteo Renzi compirà un anno di vita, era un sabato quando giurò al Quirinale di fronte a Giorgio Napolitano, il nuovo premier aveva 39 anni e addosso ancora la fascia da sindaco di Firenze. Seguì il traumatico passaggio di consegne a Palazzo Chigi, con il premier uscente Enrico Letta che quasi scagliò rabbioso la campanella del Consiglio dei ministri contro il successore che lo aveva eliminato dalla guida del governo.

Dodici mesi dopo Renzi vede scorrere nel suo bilancio personale una colonna di segni più. Il successo elettorale del 25 maggio (il voto per il Parlamento europeo) con il 40,8 per cento dei voti, la legge di stabilità, l’approvazione definitiva della riforma del mercato del lavoro, il Jobs Act, dopo un violento scontro con la minoranza del Pd, il passaggio della legge elettorale Italicum al Senato, l’elezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica che rappresenta la conclusione simbolica del primo anno di potere. E finge di ignorare i dati meno positivi, a partire da quelli macroeconomici: nonostante tutte le stime che prevedono per il 2015 un Pil in positivo (+ 0,5 per la Banca d’Italia, + 0,6 per la Commissione europea, + 0,4 per il Fondo monetario internazionale, + 0,6 per il governo), effetto di una congiuntura favorevole, l’economia italiana continua a essere la più bloccata d’Europa. E non sembrano destinati a scendere in tempi rapidi i numeri della disoccupazione, nonostante i risultati attesi dall’applicazione dei nuovi contratti di lavoro e dagli sgravi fiscali per le imprese che assumono. In più, c’è una crisi internazionale che vede l’Italia assente dai tavoli sull’Ucraina e sul Medioriente, nonostante il protagonismo sbandierato nei mesi scorsi con la nomina di Federica Mogherini alla vice-presidenza della Commissione Ue con l’incarico di rappresentare la politica estera dell’Unione.

Nessun effetto depressivo sull’umore del premier, anzi. «Il 2015 sarà un anno felix. Non solo felice ma fertile», ha annunciato a Milano alla Expo delle idee che lancia l’evento dell’anno, l’apertura è in agenda per il primo maggio. Per ora è la raccolta è cominciata soprattutto in Parlamento: gli ultimi arrivati sono i fuoriusciti di Scelta civica, quasi tutti ritornati da dove erano partiti, nel Pd. Una trasumanza da destra che segue quella già avvenuta alla sinistra del Pd, con gli ex Sel di Gennaro Migliore. Ma sul Parlamento sta per abbattersi l’onda d’urto provocata dal terremoto post-elezione di Mattarella, la rottura del Patto del Nazareno, l’asse Renzi-Berlusconi che per il primo anno di governo è stata l’ipotesi strategica su cui si è retta la politica italiana. La riforma della Costituzione in esame alla Camera va avanti nel caos di Forza Italia, con due o tre fazioni che votano in ordine sparso e il capogruppo Renato Brunetta che parla con se stesso. Al Senato, dove sulla carta i numeri della maggioranza sono più fragili, si contano a decine i candidati al soccorso del governo, gli Stabilizzatori, come si sono auto-proclamati. In arrivo da Sel, dagli ex Movimento 5 Stelle, dal Gruppo Autonomie, dall’Ncd e da Forza Italia. I senatori legati a Denis Verdini, in sonno, per ora.

Un pacchetto di mischia utilissimo per affrontare nelle aule parlamentari le prossime sfide. Nel Consiglio dei ministri del 20 febbraio Renzi mira ad aprire il fronte liberalizzazioni, su cui si sono mossi in passato il secondo governo Prodi (la lenzuolata Bersani del 2006) e il governo Monti. Primo obiettivo: le farmacie. Estensione dei farmaci di fascia C alle para-farmacie e abbattimento del tetto che vieta a una società di possedere più di quattro farmacie nella stessa provincia. Misure sulle assicurazioni. E sugli ordini professionali. Solo l’anticipo della guerra che per i renziani di più stretta osservanza dovrà caratterizzare il 2015 del governo, l’anno due dell’era di Matteo. Muovere all’attacco degli apparati pubblici. Ridisegnare lo Stato. Le mitiche riforme di struttura. Ora o mai più, ragionano a Palazzo Chigi, si possono fare, superando enormi resistenze, perché il consenso nei sondaggi torna a salire. Tagliare le forze di polizia, scendere da cinque a due. Sfoltire e accorpare prefetture, uffici provinciali della ragioneria di Stato, soprintendenze, uffici scolastici, come previsto dalla riforma del ministro Marianna Madia sulla pubblica amministrazione. Portare le decisioni sulla destinazione degli investimenti pubblici sotto il diretto controllo di Palazzo Chigi. Riorganizzare la macchina della giustizia civile e penale con il pacchetto del ministro Andrea Orlando e ancora di più con l’occasione offerta dal pensionamento dei magistrati che raggiungeranno i settant’anni di età entro la fine del 2015: 1300 incarichi direttivi o semi-direttivi, un turn-over senza precedenti. E poi, come potrebbe mancare, la riforma della governance della Rai.

Come dire: finora si è scherzato. È lo schema del premier costretto sempre a correre. In Italia e in Europa. Dove, nonostante i sorrisi e la rivendicazione di una solidarietà generazionale con Alexis Tsipras, Renzi non ha nessuna intenzione di confondersi con la Grecia. Il duello tra i ministri Pier Carlo Padoan e Yanis Varoufakis sulla solidità dei conti pubblici italiani è stato solo il primo segnale. Il dono di Renzi a Tsipras, una cravatta del semestre italiano di presidenza europea, riciclata e scaduta come un’agenda dell’anno precedente, è l’indizio che il premier italiano non ha nessuna intenzione di fare nel Consiglio Ue la parte del sindacalista della Grecia o dell’Europa del Sud. La partita dei parametri, sfondare o no il tre per cento, non va messa giù in termini ideologici, ma pragmatici. L’obiettivo trattato con Angela Merkel è restare sotto il tre, ma appena sotto, ottenere di eliminare dal computo gli investimenti che rientrano tra quelli finanziati dal piano Juncker. E rivedere nel fissare il rapporto deficit/Pil il calcolo dell’output gap, il divario di Pil, la formula che calcola la differenza tra la crescita potenziale e quella effettivamente realizzata. Già, ma come si stima il Pil potenziale in una fase di recessione prolungata negli anni ? Se cambiano i parametri di calcolo si accumula qualche miliardo in più.

Astruserie tecniche, ipotizzate dal consigliere economico di Renzi, il deputato Yoram Gutgeld, che guida la cabina di regia di Palazzo Chigi. Eppure a sentire Gutgeld, il ragionamento non è economico, è tutto politico, svela la vera ambizione del governo Renzi nel secondo anno di vita: «La crescita economica è legata alle riforme istituzionali e alla debolezza del sistema decisionale. Tutti parlano di un ventennio di declino, ma noi dobbiamo affrontare problemi economico-sociali che si sono stratificati nell’ultimo quarantennio. I problemi sono cominciati nel biennio 1969-70, il centro-sinistra dei governi Rumor. L’istituzione delle regioni e la sanità decentrata, lo Statuto dei lavoratori e poi le baby pensioni.

Potrà sembrare strano, ma è questo l’orizzonte temporale con cui il governo Renzi si trova a confrontarsi. In un contesto in cui le democrazie occidentali faticano a decidere: le decisioni si prendono in tempi troppo lunghi o nei luoghi sbagliati. E nessuno è mai responsabile di nulla». E giù citazioni dell’ultimo volume di Francis Fukuyama, il politologo americano che un quarto di secolo fa previde la fine della Storia, autore di “Political Order and Political Decay” sulla debolezza delle istituzioni Usa, il potere di veto che il Congresso (il Parlamento) esercita sul Presidente, il crescente ruolo del potere giudiziario, la sovrapposizione tra Stato centrale e i singoli stati federali. «Suona familiare?», chiede Gutgeld.

Eccolo il cuore del Renzismo, dopo un anno di governo. Il filo che tiene insieme le polemiche contro i corpi intermedi, i sindacati e la Cgil, l’attacco alle regioni, nonostante la presidenza della conferenza Stato-regioni dell’amico Sergio Chiamparino («si occupino dei loro sprechi»), la cancellazione del Senato elettivo prevista nella riforma della Costituzione, la contrapposizione con la magistratura ben al di là del taglio dei giorni di ferie per giudici e pm, perfino l’allergia esibita anche via twitter per il giornalismo critico (“Piazzapulita” e “Presa Diretta”). Centralizzare il potere di decisione, senza tanti pesi e contrappesi. Riportare la responsabilità delle scelte al vertice dell’esecutivo, a Palazzo Chigi e al suo inquilino di turno, ovvero Matteo Renzi.

Cambiare il titolo V della Costituzione, così come lo aveva riformato il centro-sinistra nel 2001, e cancellare la retorica degli ultimi venti anni sul federalismo, neppure la Lega di Matteo Salvini ne parla più. Spending review da scaricare sugli enti locali più che da accollare ai ministeri e agli apparati dello Stato centrale come prevedeva il commissario Carlo Cottarelli (dimenticato). Scontro con le burocrazie: il tetto per gli stipendi dei manager e dei dirigenti pubblici, la semplificazione amministrativa. Il controllo di Palazzo Chigi sul serbatoio degli investimenti pubblici. Il ministero delle Infrastrutture, dicono, è una tecnostruttura che ancora resiste alla linea di Palazzo Chigi, togliere risorse alle grandi opere mai concluse e spostarle ai lavori di edilizia scolastica e di tutela del territorio.

A costo di rimettere in discussione anche gli impegni presi, come l’alta velocità Torino-Lione su cui Renzi non ha mai nascosto le sue perplessità. Il ministero del Sud, in questo contesto, è una mossa elettorale. La trovata di un leader tattico in modo esasperato, sempre alla ricerca del consenso. Ma no, replicano gli uomini del premier, la sua strategia risale almeno al 2012, quando Renzi perse le primarie contro Pier Luigi Bersani. Improvvisatore. Accentrantore. Maniaco del dettaglio. Con il rischio del pasticcio dell’ultimo minuto: come nel caso del decreto fiscale, quando per dolo o per colpa Renzi sottovalutò l’impatto della norma salva-Berlusconi e fu costretto a ritirarlo.

È il disegno di una Repubblica del premier. La madre di tutte le riforme è l’Italicum che consegna la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera alla lista che vince le elezioni, consegnando al suo leader cinque anni di stabilità. Il testo, approvato dal Senato, va ora alla Camera per l’approvazione definitiva. È l’ultima occasione per gli avversari del premier per far deragliare il progetto. Impedire l’approvazione della nuova legge elettorale e portare a elezioni anticipate con la legge elettorale uscita dalla sentenza del 2013 della Consulta, il Consultellum.

Legge iper-proporzionale che renderebbe inevitabili nuovi governi di coalizione o di larga intesa. Una strada che potrebbe piacere, per motivi diversi, a Berlusconi, Salvini e Angelino Alfano, liberati dall’incubo di dover stringere un’alleanza (impossibile) prima del voto. Con la proporzionale, ognuno va per sé e dopo il voto si vede. Ma il progetto di elezioni anticipate, ammesso che esista, è spericolato. Deve fare i conti con i parlamentari disposti a sostenere il governo pur di non tornare alle elezioni. Con un capo dello Stato che non scioglierebbe volentieri le Camere che lo hanno appena eletto. E con Renzi. Pronto a cambiare schema di gioco e legge elettorale. Via l’Italicum, dentro il Mattarellum, la legge che porta il nome del nuovo presidente, con i collegi odiati da Berlusconi. L’ultimo sgarbo di Matteo.