E’ sempre stato un uomo di poche parole, mai sopra le righe, il neopresidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ma la sua voce l'ha fatta sentire nel 1995, quando l’allora deputato del Ppi intervenne per fermare per due volte un provvedimento del governo Dini a favore delle lobby accademiche.
Il 21 giugno di quell’anno era stata approvata infatti una norma che assicurava “la rappresentanza degli studenti in misura non inferiore al 15 per cento” in tutti gli organi collegiali delle università (Consiglio d’amministrazione, Senato accademico, Consigli di facoltà e di corso di laurea). La decisione scatenò un putiferio negli ambienti universitari. Molti rettori e presidi insorsero e il Governo dopo appena venti giorni corresse il tiro, presentando un decreto legge che interpretava in maniera restrittiva la decisione del Parlamento: in buona sostanza, la presenza degli studenti veniva limitata ai soli consigli d’amministrazione.
A denunciare il “colpo di spugna” dell’esecutivo fu l’Associazione nazionale dei docenti universitari (Andu), che si scagliò contro la “lobby di potenti professori che ha voluto dare una dimostrazione di prepotenza e di arroganza” e bollò l’intervento dell’esecutivo con parole grosse: “Un golpe che non ha precedenti”. Relatore alla Commissione Affari Costituzionali alla Camera fu nominato Sergio Mattarella.
L'ex democristiano demolì sul piano giuridico il colpo di mano accademico-governativo, sostenendo come l’esecutivo non poteva sconfessare una decisione parlamentare. Poi si schierò decisamente con gli studenti, “obiettivamente presi in giro dal Governo”, tanto che “c’è il rischio di suscitare violente proteste”. La Commissione approvò la relazione e il decreto fu lasciato decadere.
Passata l’estate, l’allora ministro dell’Università, il fisico Giorgio Salvini, ripresentò la norma salva-baroni senza modificare una virgola, come se nulla fosse accaduto. Ma si trovò di nuovo di fronte l’onorevole Mattarella, che il 20 settembre tornò davanti alla Commissione ed esordì piccato: “Ci si attendeva che il Governo non ripresentasse quelle norme che erano già state oggetto di numerose critiche da parte della Commissione”. Poi affondò il colpo contro il Governo Dini: “Non può continuare ad utilizzare lo strumento della decretazione d’urgenza per introdurre qualsiasi genere di norme”.
L’ultima stoccata, infine, la riservò al provvedimento contestato: “Contiene una falsa norma interpretativa che modifica in realtà una legge approvata dal Parlamento pochi giorni prima”. Al termine della dura requisitoria, la Commissione bocciò il decreto legge perché non sussistevano i requisiti di “necessità e urgenza”. Fu la prima volta nella storia della Repubblica che, sul tema dell’università, un decreto legge arrivò in Parlamento azzoppato da un parere contrario.
Ma non finì qui. Al momento della discussione in Aula, l’allora esponente del Ppi riprese la parola e affossò definitivamente la norma salva-baroni: “Il Governo non può, dopo pochi giorni, modificare la norma, presentando un’interpretazione autentica. Ciò, infatti, significa voler cancellare, tra l’altro in forma indebita, quanto disposto dal Parlamento”. Il ministro Salvini fu così costretto a fare marcia indietro, l’articolo contestato saltò e i le lobby accademiche furono costrette, obtorto collo, ad accettare le nuove regole.