La famiglia cattolica. La gioventù socialista. Poi la carriera ?da manager. E ora la grande sfida di rifondare il centrodestra. L’ultimo delfino di Berlusconi si racconta

Stefano Parisi
Con quell’aria un po’ così che hanno quelli che scendono tardi in politica, Stefano Parisi continua a camminare nel territorio accidentato del centrodestra, guardato da molti come un alieno. Eppure nelle amministrative di pochi mesi fa ha compiuto un miracolo a Milano, portando vicino alla vittoria la più malridotta delle coalizioni e dimostrando nei fatti che una leadership c’è. Ed è la sua, perché è nuova, perché è benedetta da Berlusconi, perché mescola un antico imprinting socialista con un liberalismo due punto zero, perché lui ha pensieri lunghi e gli altri cortissimi.

Così mostra di non dare peso al malcontento di Forza Italia e porta di città in città una convention chiamata “Megawatt”, dal luogo della prima riunione milanese di un mese fa. Una specie di itinerante Leopolda di centrodestra che si propone di diffondere “idee per riaccendere il Paese”. Ci facciamo raccontare queste idee in un incontro dove Parisi sarà soprattutto attento a dare di sé l’immagine di un politico di stampo nuovo, ma senza nascondere l’umano impasto che l’ha portato fin qui, fatto di ambizione e sagacia, mitezza del carattere e senso del potere.

Lei è ormai l’uomo nuovo del centrodestra, ma non ha ancora un ruolo e una qualifica. Va bene se la chiamo federatore?
«Preferisco “rigeneratore”, perché il mio è un lavoro più profondo. Prima di federarsi con la parte radicale, vanno messi in luce i connotati della parte moderata della coalizione».

Che però è quella che più l’osteggia.
«È normale che ci sia resistenza. Meno normale che non si veda che io sto cercando di rimettere insieme ideali e persone. Alle mie convention viene gente che non voterebbe più gli attuali partiti di un centrodestra che ha perso per strada 11 milioni di elettori. È ora di far capire che in questo Paese c’è ancora un’alternativa. Che se Renzi se ne va, come è auspicabile, non c’è il vuoto o Beppe Grillo, ma un nuovo schieramento capace di buon governo».

Con lei come leader, ovviamente.
«Questo si vedrà. Per ora il mio è un contributo di studio e di proposte».

Come la politica lib-pop che ha lanciato a mo’ di slogan?
«Ma che slogan non è. Il liberalismo che ha finora dominato l’Europa favorendo solo le élite ha portato alla situazione attuale. È maturo il tempo per un liberalismo che sia compreso dal popolo, che non liberi soltanto i grandi interessi ma anche le persone. Per sintetizzare: un welfare sempre meno basato su spesa pubblica e sempre più su iniziative della comunità. È questa una delle esigenze che mi ha convinto a entrare in politica».

Una decisione presa alla soglia dei 60 anni. È stato un cambiamento difficile?
«È stato un momento sofferto, ma ha prevalso una passione politica antica e intatta. Io non nasco dal nulla. Ho lavorato per più di vent’anni nell’amministrazione pubblica ai massimi livelli e a contatto con le persone migliori che hanno governato l’Italia, come Gianni De Michelis e Giuliano Amato, due grandi maestri».

A proposito di Amato, era nel suo staff quando, nel 1992, fu varato il prelievo notturno nei conti correnti degli italiani. Partecipò a quella decisione?
«Non direttamente. Fu un provvedimento preso di notte, quando io, che a Palazzo Chigi ero il capo del Dipartimento economico, non ero presente. Poi, ovviamente, lo condivisi. Era un’emergenza e non si poteva fare altrimenti».

Adesso lo riproporrebbe?
«No. Oggi abbiamo bisogno soprattutto di stabilità. Non possiamo più permetterci manovre del genere».

Parisi, lei dice spesso cose dure con tono serafico. Da dove le viene questo carattere insolito in politica?
«Chissà, forse dalla formazione rigorosa avuta nell’infanzia. Nella famiglia di mio padre, quattro dei cinque maschi erano gesuiti. I padri Parisi erano famosi a Roma. Uno era missionario, uno era cappellano delle Acli, uno assistente spirituale presso la Comunità europea, uno parroco in una chiesa romana».

Quello che si dice una famiglia vaticana.
«In un certo senso sì, perché mio nonno produceva candele proprio per il Vaticano. Ma non va intesa come vicinanza al potere: i miei zii sono tutti morti da semplici parroci. La forza di tutta la famiglia era basata sull’etica, soprattutto in mio padre, che non essendo prete era il più rigido».

Lei però fu presto un giovane socialista. Come la prese suo padre?
«Male. In una famiglia così fortemente cattolica e democristiana sembrò una bestemmia. Poi, un giorno, alla chiusura della campagna elettorale del 1979, feci un comizio a piazza Navona e, in fondo, seminascosto, vidi mio padre che era venuto a sentirmi. Da allora fu pace».

In quegli anni essere socialista non doveva essere facile neanche a scuola e all’università, dove dominava l’estrema sinistra.
«Infatti ci cacciavano dalle assemblee, però io ero lombardiano, quindi di sinistra e trattato un po’ meglio. Chi se la passava male erano quelli come Enrico Mentana, che era nenniano, quindi craxiano, quindi di destra. Quando Craxi riportò il Psi al governo con il pentapartito, io uscii dalla Federazione giovanile».

E dove andò?
«A lavorare. Mio padre si era ammalato gravemente e ci avrebbe lasciato dopo lunghi anni di sofferenza. In famiglia non c’erano soldi e mi sono dovuto ingegnare, ma la passione politica non si era spenta. L’ho esercitata in tutti i miei incarichi pubblici fino all’esperienza più esaltante: quella di city manager a Milano».

Che c’era di esaltante in quel lavoro?
«Tutto. Era la prima volta che facevo il manager e potevo sperimentare questo ruolo nel pubblico. È stato un lavoro faticoso e bellissimo, noi innovavamo e la città rispondeva con prontezza. Per questo poi mi sono candidato a fare il sindaco».

Con lei all’epoca c’era anche Marco Biagi.
«Un grande amico che collaborava gratis con il Comune e quando veniva a Milano dormiva sul divanetto del mio ufficio. Con lui ho fatto il “Patto per Milano”, un accordo che dava flessibilità ai contratti a termine. La Cgil ne fu scontenta e Cofferati venne a Palazzo Marino a protestare. Fu lì che iniziarono le minacce a Marco e continuarono fino alla sera in cui mi chiamò: “Aiutami, mio padre è preoccupato, io ho paura”».

Che cosa fece?
«Quello che avevo sempre fatto in quei mesi. Telefonare, insistere con il ministero degli Interni perché gli dessero la scorta. Ancora una volta nessuno mi ascoltò e la mattina dopo Marco fu ucciso».

Nella sua storia c’è un altro brutto momento, quando era amministratore delegato di Fastweb. Un avviso di garanzia, il rischio del carcere...
«Quasi non vale la pena ricordalo. Il pubblico ministero, Giancarlo Capaldo, che voleva far carriera accusando di truffa persone per bene, poi tutte assolte, è ancora lì, né ammonito né punito. Se dovessi avere un futuro politico, saprò far valere questa esperienza di fronte a persone non famose che soffrono per i troppi errori giudiziari, con intere famiglie gettate nello sconforto».

A proposito, non abbiamo ancora parlato della sua famiglia attuale.
«Non c’è molto da dire. Una moglie israeliana di grande tempra che mi ha sempre sostenuto e appoggiato, due brave figlie che si stanno facendo strada nella vita. Ma le ho detto che ho una mamma di 95 anni che è una bomba e va tutti i giorni in chiesa a pregare per me? Pregano per me anche le mie tre sorelle. Sono ben protetto».

E lei non prega mai?
«Sono un cattolico poco praticante».

Parisi, ormai lei è un politico famoso. Che effetto le fa essere riconosciuto per strada, assaporare la popolarità?
«Io sto facendo la vita di sempre. Giro in motorino, prendo la metropolitana. È questo che la gente deve vedere in un politico: che è uno come loro. In tanti mi avvicinano, mi chiedono un selfie, qualcuno mi guarda in cagnesco perché è di sinistra. Ma nei miei incontri pubblici come per strada, sono le persone che incontro che mi danno energia e motivazione. L’adrenalina della politica viene da lì».