«In Cina si teme l’instabilità. E un euro fragile che nuocerebbe ai mercati». Parla ?Zhang Lei, corrispondente del Quotidiano del Popolo

la Borsa di Pechino
Il malinteso cinese è che si tratti di una Brexit all’italiana. Che il referendum del 4 dicembre non sia un test su una riforma costituzionale ma che si riveli in realtà un quesito pro o contro l’Europa. E che la possibile vittoria del No sia il prologo per l’uscita dall’Unione e per l’abbandono della moneta unica. Lo scenario suscita una sorprendente apprensione in un paese asiatico molto lontano come la Cina «che segue con grande interesse le faccende italiane» spiega Zhang Lei, corrispondente in Italia del quotidiano People’s Daily, il “Quotidiano del popolo”, organo del Partito Comunista Cinese, diffusione dai 3 ai 4 milioni di copie. In un perfetto italiano , Zhang Lei spiega le ragioni del timore nel suo paese « purché sia chiaro che queste sono le mie opinioni, le considerazioni di un privato cittadino, non quelle del mio giornale e non rappresentano nessuna posizione ufficiale del mio paese».

In Cina c’è preoccupazione per il referendum. È così?
«Si. La preoccupazione c’è ma è più economica che politica. Si pensa che una vittoria del No nuoccia alla zona dell’euro e all’euro. E per noi è importante che l’euro non s’indebolisca. Oggi la globalizzazione finanziaria collega tutti i paesi e se l’euro subisce un danno avrà certamente un effetto sul denaro cinese. Il grande spettro è l’instabilità e non è affatto una buona prospettiva, visto che fino a oggi la Cina è il paese asiatico al primo posto per collaborazione economica con l’Italia e gli investimenti cinesi in questi due anni sono ancora molto aumentati.»

C’è un equivoco di fondo. Non si decide l’uscita dall’Ue. Non è un’Italexit.
«È chiaro. Ma se vince il No e se - come sembra prospettarsi - cade il governo, le riforme preparate da Renzi saranno bloccate. Si dovrà ricominciare daccapo. Come? Con chi? Dal mio punto di vista l’Italia ha bisogno di un cambiamento profondo. Lo pensano le tante persone normali con cui parlo, medici, avvocati, lavoratori, tassisti, portieri. Che a farlo sia Renzi o un altro politico poco importa. L’unica differenza è che Renzi ha già iniziato».

Come si è creato questo timore? Da noi ci sono stati altri referendum senza un simile clamore.
«Erano altri tempi. La Brexit ha segnato un solco da cui non si può prescindere. È vero che da voi il fenomeno populista non è così grave come nell’Europa del Nord. C’è la Lega, mi ricorda lei. In effetti, è anti Europa. E sì, ci sono anche i Cinque Stelle: ma secondo me, dopo la Brexit hanno aggiustato il tiro. Ho parlato con alcuni loro parlamentari e tranne qualche punta estrema non ho rilevato un reale filone anti Ue. In ogni caso non c’è nessuno che sia paragonabile a Nigel Farage, a Frauke Petry o a Marine Le Pen. Io sto preparando un articolo per spiegare bene il significato del referendum. Ho tanti amici italiani che si recano in Cina e tutti i cinesi che incontrano chiedono come prima cosa se anche l’Italia al pari della Gran Bretagna voglia uscire dall’Ue».

Non avete uomini-ponte, rapporti bilaterali che possano spiegare come stanno le cose?
«I cinesi non sono come gli americani che vogliono influire su tutto, controllare tutto, fare i poliziotti universali. Come? Evidentemente possono influenzare il risultato di un referendum se Renzi è andato a Washington per chiedere a Obama che sostenga il Sì».

Però ha vinto il repubblicano Trump. In effetti il Financial Times con un editoriale di Wolfgang Münchau ha paventato con il No l’uscita dall’euro. Pochi giorni fa il presidente cinese Xi Jinping ha incontrato Renzi in Sardegna. Hanno toccato il tema referendum?
«No. Ma a settembre quando il vostro premier ha partecipato al G20 di Hanhzhou ha parlato delle riforme in atto. Anche il mio paese sta lavorando a un’innovazione strutturale e da questo punto di vista Cina e Italia possono scambiarsi delle idee. Siamo a una svolta, a quella che viene chiamata la nuova normalità».

Cosa sta succedendo?
«Nulla di più di un cambiamento. Negli anni passati la Cina ha guadagnato molto con l’export ma ora il mercato mondiale è segnato dalla crisi e non si è risvegliato. Adesso anche i cinesi chiedono più qualità che quantità quindi il modo di produrre deve cambiare per forza. Per questo è necessaria una riforma del sistema politico, un grande passo verso la semplificazione. Più mercato e meno centralizzazione del governo».

Per tornare a noi, si dice che in attesa del 4 dicembre molti capitali cinesi diretti in Italia siano stati messi in stand by.
«Non so esattamente quali ma credo che questa scelta non sia solo una posizione degli investitori cinesi. L’Italia fa parte del gruppo dei G7 e dei G 20, è un paese molto interessante per la Cina. Con noi c’è un legame culturale che risale ai tempi dell’antica Roma. Per questo la storia del referendum è seguita con tanto interesse con la preoccupazione che ogni piccola instabilità possa provocare una reazione a catena. Ha presente l’effetto farfalla?»

Certo, quando piccole variazioni producono grandi cambiamenti nel lungo periodo. Ma la Cina investe moltissimo in Africa. E non si può certo considerarlo un continente politicamente stabile.
«Tra Cina e Africa c’è un’amicizia di lunga data. È vero, in Libia abbiamo investito tantissimo e la guerra ci ha danneggiato in modo considerevole. Così anche in Yemen. So che secondo i sondaggi molti giovani italiani voteranno No. Non hanno mai vissuto un dopoguerra e forse non capiscono fino in fondo quanto conti la stabilità di un paese. Devono pensare al futuro e se posso dare un consiglio, li esorto a studiare il cinese. Arabella, la nipote di Trump, figlia della bellissima Ivanka ha già cominciato e su Instagram c’è un video in cui vestita alla cinese canta in cinese per il Capodanno dell’anno della scimmia. Lo parla già benissimo».

La stampa cinese ha difficoltà di rapporti con quella italiana?
«Sì. Preferiscono stabilire contatti con i giornalisti americani. Pochi parlano con noi, il loro vero interesse è la politica interna. Mi colpisce che se per esempio Renzi va all’estero i reporter al seguito continuino a porgli domande sull’Italia - «Salvini ha detto questo, come commenta?»- e non sul paese che sta visitando, sui nuovi accordi, sulle sue impressioni. Credo ci sia bisogno di una visione più aperta. Anche la vita quotidiana è legata ormai al mondo nella sua globalità».

Non per difendere la categoria, ma nei suoi incontri forse è stato sfortunato. Con i politici invece come va?
«Non sono interessati a costruire un rapporto con i giornalisti orientali. Anche la stampa giapponese incontra delle difficoltà. L’unico con un approccio più internazionale è Romano Prodi».

I rapporti del Professore con la Cina sono noti.
«In Cina l’attenzione e curiosità per comprendere il vostro paese è in aumento. Sa cosa penso? Che il timore, gli equivoci, le supposizioni sul referendum potrebbero diventare una reale pubblicità. Per i cinesi un’occasione di capire di più l’Italia. Per voi un imprevedibile grande spot».

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