Il leader di Ala è tra i meno presenti e produttivi della legislatura secondo l'ultimo rapporto OpenPolis. Eppure conta più di tanti stakanovisti. Ecco chi lavora e chi scalda la poltrona nel nostro Parlamento

Il peone e il potente, il secchione e l’infedele, il Carneade e il Diavolo. Uno, il Pd Giorgio Pagliari, è il più operoso ospite di Palazzo Madama; l’altro, il capo di Ala Denis Verdini, è il meno produttivo (o quasi), secondo il dossier di Openpolis che l’Espresso presenta in anteprima in queste pagine. Presi insieme, rappresentano l’alfa e l’omega di una istituzione Lazzaro, il Senato-alzati-e-cammina resuscitato dagli elettori via referendum, quasi al termine di una legislatura così caotica da vedere la nascita del tripolarismo, l’alba del terzo governo in meno di quattro anni, il fiorire di gruppetti parlamentari e un totale di cambi di casacca da dare le vertigini.

Ad ogni modo, Verdini e Pagliari non hanno in comune praticamente nulla, a parte l’età e la carica, ma messi insieme raccontano parecchio dei processi in atto: dove si decide, chi incide, e in che modo. Uno è notissimo: Denis da Campi Bisenzio, plurinquisito e condannato in primo grado per concorso in corruzione, per molti anni braccio destro di Berlusconi, addetto fra l’altro a fare le liste e perciò spesso chiamato “macellaio” («In realtà ero importatore di carni. Ma l’espressione in politica mi si attaglia: nelle liste qualcuno entra e a qualcuno devi tagliare la testa», ha spiegato a Vanity Fair).
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Tenutario e vestale del Patto del Nazareno, da ultimo inventore di Ala, il gruppetto parlamentare pro-Renzi, Verdini ha uno dei curriculum interni più scarni di tutto il Parlamento. In tre anni e dieci mesi ha presentato zero disegni di legge, ne ha cofirmati quattro, è intervenuto due volte, ha avanzato una sola interrogazione, riguardante una incompatibilità nella giunta del comune laziale di Santa Marinella (vai a sapere perché). Si aggiungano un’altra ventina di atti vari, ed è tutto. A leggere la scheda sembra soltanto uno che passava di là. Il suo indice di produttività, che lo colloca alla posizione 313 su 314 senatori considerati dallo studio (il Presidente è escluso), ne è uno specchio eloquente: 2,79 il punteggio, superiore soltanto a quello dell’avvocato di Berlusconi Niccolò Ghedini (0,73), che ha già chiarito di esser soddisfatto di dove sta, cioè nel suo studio legale. Il registro presenze di Verdini va di conseguenza: compare in Aula al Senato nel 10,6 per cento circa delle sedute, vale a dire mediamente due volte al mese. Solo il solito Ghedini fa meglio di lui: col suo 0,84 per cento di presenze in Aula, ha trovato di fatto la formula dell’invisibilità.

OpenPolis, la classifica di produttività




Eppure, l’improduttivo e assente Verdini ha lasciato il segno nella legislatura. Un segno simpaticamente pesante. Nel determinare il patto del Nazareno, agevolare l’ascesa di Renzi, anzitutto («senza di lui staremmo ancora ad armeggiare col cacciavite di Enrico Letta», scrisse una volta Giuliano Ferrara tutto fiero). E, dopo, per tutto il resto: anche in termini di leggi. Non c’è neanche bisogno di ricordare tutta la stagione di sostegno al governo appena caduto, con episodi tra il ridere e il piangere come a maggio il vero e proprio giallo sulla presenza del verdiniano Ciro Falanga (c’era, non c’era, era fuori dalla porta, dietro la tenda, in vivavoce al telefono) nel vertice di maggioranza a via Arenula in cui si decideva sulla riforma della prescrizione. Basti del resto pensare all’oggi: cambiato il nome del premier (da Renzi a Gentiloni) ma non gli assetti politici, Verdini, rimasto a bocca asciutta di ministeri, ha quasi minacciato la crisi, ma nessuno crede abbia davvero lasciato la stanza dei bottoni (nella quale ufficialmente non è mai, del resto, entrato).

All’estremo opposto, c’è Giorgio Pagliari. «Un piccolo uomo politico del Pd, tal senatore Pagliari», lo ha definito con malanimo il sindaco di Parma Pizzarotti (che del resto un motivo per detestarlo ce l’ha). Docente di diritto Amministrativo all’Università di Parma dove è nato e cresciuto, catto-renziano della prima ora, al punto da essere già indicato così quando a Palazzo Madama in commissione Affari costituzionali di renziani ce ne erano solo tre (lui, Cociancich e De Monte) e non ottocento, Pagliari è una specie di angelico diesel del Senato. Membro di sei commissioni, tra cui anche la Giustizia, ha fatto da relatore a ventidue provvedimenti, tra cui alcuni decreti di conversione del governo e il blocco della riforma Madia sulla Pubblica amministrazione. Firmatario di sedici proposte di legge, co-firmatario di altre duecento, è riuscito fra l’altro (approfittando del letargo pre-referendum) a far approvare da Palazzo Madama il disegno di legge sul Festival Verdi di Parma e Busseto (finanziamento, un milione all’anno). E si è tirato addosso le antipatie di certo grillismo per aver dato origine, con un esposto, alla poi archiviata vicenda giudiziaria sulle nomine al Teatro Regio di Parma, determinante per la rottura tra il sindaco Pizzarotti e il movimento Cinque stelle (ecco il motivo del malanimo).

Bene, questa strenua attività parlamentare ha portato Pagliari nell’Olimpo della produttività. È addirittura primo in assoluto, su 314 senatori, con un punteggio di 855,81: un risultato ottenuto senza neanche avere un particolare ruolo istituzionale o politico. Il che è ancor più rimarchevole, perché la sua omologa alla Camera, Donatella Ferranti, è sì la più produttiva tra i deputati (902,46) ma è anche presidente della Commissione Giustizia; mentre la seconda arrivata al Senato, Loredana De Petris (Si-Sel, 703,9), è capogruppo sia in Aula che in commissione.

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Un elemento però li accomuna. Il gran daffare di Pagliari, e di altri suoi consimili, più che dipendere dall’autonoma iniziativa di ciascuno, si svolge in buona parte nel solco dell’attività di governo. Accade infatti, nota Openpolis, che «se in linea di principio» un parlamentare per essere produttivo «potrebbe esprimersi al meglio presentando e lavorando per far approvare disegni di legge, in realtà ormai quello che conta è essere nominati relatori dei provvedimenti proposti dal governo». Essere nominati, ecco l’obiettivo. E questo perché, come risulta in un precedente studio (“Premierato all’Italiana”, dicembre 2015), oltre l’80 per cento delle leggi approvate in questa legislatura (89 per cento circa con il governo Letta, 80 per cento con Renzi) non è di iniziativa parlamentare, ma governativa. Dunque chi tra i parlamentari di maggioranza è più in linea con l’esecutivo (oppure ha un ruolo chiave, se è all’opposizione), otterrà più facilmente di occuparsi di provvedimenti che, avendo più consensi e velocità, poi andranno ad aumentare la sua produttività (in media l’esecutivo ci mette 133 giorni a trasformare una proposta di legge, i parlamentari 408).

OpenPolis, assenteisti e stakanovisti




Sempre secondo questa linea di affidabilità e/o fedeltà, proprio chi ha incarichi istituzionali o politici (presidenti di commissione, capigruppo e rispettivi vice), ha una produttività mediamente raddoppiata. Lo si vede benissimo guardando ai casi in cui i presidenti di commissione sono cambiati: da quando l’azzurro Francesco Nitto Palma ha perso la presidenza della Giustizia al Senato, a sua produttività mensile è diminuita dell’82,2 per cento (lo stesso è accaduto a Daniele Capezzone, -80 per cento; e a Paolo Sisto, -58 per cento); all’opposto, diventando presidente della commissione Bilancio il senatore Giorgio Tonini l’ha aumentata di circa 90 per cento, il deputato Andrea Mazziotti di Celso addirittura del 203 per cento da quando è andato a guidare la Affari costituzionali.

Dossier
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Va a finire insomma che essere semplicemente presenti a tutte le sedute non influenza granché il risultato, anzi rischia di trasformare chi lo fa in un semplice schiaccia bottoni: circa il 70 per cento dei parlamentari ha infatti una bassa produttività (è spesso sotto la media anche chi è presente a più del 90 per cento tutte le sedute) mentre soltanto il 5-6 per cento riesce davvero ad incidere sulla produzione legislativa, vale a dire a presentare ddl che poi diventano legge, oppure a fare il relatore su atti chiave. Pochissimi, gli altri inseguono.

È per questo che tra i primi posti si trovano i Pagliari, ma anche appena sotto le Finocchiaro (Pd), i Fedriga (Lega), i Barani (Ala), le Binetti (Ap). Mentre nel gruppone degli ultimi in Parlamento, che però incidono nelle scelte che sono a monte della produttività legislativa - stile Verdini, per intendersi- ci sono politici come il presidente del Pd Matteo Orfini, o il leader di minoranza Pier Luigi Bersani, rispettivamente classificati 609 e 610 su 629. Non tanto sopra la pur assenteista Daniela Santanché, e in fondo nella stessa fascia dell’ex ministro Giulio Tremonti o dell’indimenticabile Riccardo Villari. Comunque ci si giri, uno spettacolo di un certo impatto, dal che si capisce la difficoltà di stabilire da quale lato voltarsi.