In Italia chi organizza o paga i viaggi all'estero dei foreign fighters rischia da cinque a otto anni di carcere. Chi invece finanzia singoli atti terroristici, anziché un'organizzazione, non rischia nulla: il decreto varato dal governo un anno fa non lo prevede. Allo stesso modo, un viaggio finalizzato a commettere un reato di terrorismo viene punito solo se è riconducibile all'arruolamento. Sono solo alcuni dei paradossi di una legislazione, quella italiana, riconosciuta come una delle più avanzate di tutta Europa sul tema, ma nella quale non mancano lacune significative. “Vuoti” che l'Italia potrebbe essere chiamata a colmare quando sarà approvata la direttiva allo studio della Ue.
Di certo, rispetto a molti altri Paesi comunitari (vedi il Belgio), la nostra è fra le nazioni messe meglio e ha una “competenza” figlia anche di misure prese nella lotta all'eversione e alle associazioni di stampo mafioso. Senza contare che, a partire dagli attentati dell'11 settembre, sono state realizzati a più riprese vari interventi legislativi per contrastare il terrorismo internazionale: operazioni sotto copertura, maggiore facilità di disporre intercettazioni, permessi di soggiorno a chi collabora con la magistratura, colloqui investigativi coi detenuti privi di valore processuale ma finalizzati ad acquisire elementi utili alle indagini. E se nessuna nazione può ritenersi esente dal rischio di attacchi, è anche vero che finora - vai a sapere quanto per attività di prevenzione e quanto per semplice “fortuna” - il mix di strumenti investigativi, misure repressive e lavoro di intelligence ha evitato attacchi come avvenuto in Inghilterra, Spagna, Francia o Belgio.
Adesso la Ue vuole armonizzare le leggi dei vari Paesi membri con un giro di vite che aggiorni l'ultimo provvedimento in materia, una decisione-quadro del lontano 2002 modificata in parte nel 2008: un'era geologica fa rispetto ai cambiamenti che ha conosciuto il fenomeno negli ultimissimi anni. In molti casi si tratta di misure che la nostra normativa prevede già, come l'istigazione al terrorismo, la presenza di aggravanti specifiche o di attenuanti per i collaboratori di giustizia. Altrove, invece, la proposta di direttiva europea mette in luce significativi punti di distanza proprio su punti cruciali.
L'Europa, ad esempio, vorrebbe che fosse considerato penalmente rilevante ogni atto volto a incitare, addestrare o arruolare con finalità terroristiche, prevedendo un'ampia serie di condotte punibili anche in presenza di una semplice minaccia; in Italia, al contrario, il campo di applicazione è assai più ristretto e certi comportamenti costituiscono reato esclusivamente quando sono finalizzati a compiere atti di violenza o sabotaggio.
Stesso discorso per il finanziamento: in Italia è punito se riguarda un viaggio all'estero o sovvenziona un gruppo armato ma la legge non dice nulla se riguarda singoli atti terroristici. In maniera assai più tranchant, la Ue da parte sua intende qualificare come reato qualunque forma di finanziamento, anche indiretta. Mentre l'estorsione e la produzione di documenti falsi, che da noi rappresentano una semplice aggravante, per l'Europa se hanno finalità di terrorismo vanno resi reati autonomi.
I tempi si prevedono in ogni caso lunghi: l'ultima riunione dei ministri della Giustizia e degli Interni, a marzo, ha espresso un orientamento generale sulla bozza ma prima che diventi “legge” dovrà essere oggetto di negoziati con il Parlamento europeo. Solo dopo si vedrà se l'Italia sarà obbligata a modificare le sue norme. Anche perché non è detto che sia utile, come osserva uno studio dell'Ufficio rapporti con la Ue di Montecitorio: “In linea generale potrebbe risultare opportuno valutare se le modifiche prospettate siano sufficientemente dettagliate da assicurare un effettivo avanzamento sotto il profilo dell’efficienza del contrasto al terrorismo - scrivono i tecnici della Camera -. La persistenza di margini per quanto riguarda la definizione delle fattispecie criminali potrebbe ingenerare incertezze sul piano attuativo”.
Tradotto: se il rischio è di avere nuove norme ma che rischiano di essere spuntate in quanto inutilizzabili nei processi, meglio lasciare tutto com'è. Perché alla fine, più che la teoria, è il risultato quello che conta.