Non è solo questione di ambientalismo, ma anche di modello di partito: aperto, idealista ma concreto. E lontano dal neocentrismo. I dem di casa nostra dovrebbero prendere appunti

Facciamo come Katharina Schulze? La forza del riflesso condizionato è irresistibile per un Partito democratico che oggi, dopo le sconfitte cocenti del referendum del 2016 e di diverse consultazioni politiche e amministrative, è ancora una volta alla ricerca di un punto di riferimento, di un modello vincente da imitare.

Trovare un appiglio cui aggrapparsi, in una stagione in cui “il vago presentimento di un ignoto” turba i sonni di buona parte dei progressisti su entrambe le sponde dell’Atlantico appare necessario ai dirigenti di un partito che non è ancora riuscito, a più di dieci anni dalla fondazione, a darsi un’identità compiuta, un profilo riconoscibile. In effetti, nel rissoso condominio del Pd, le contrapposizioni politiche sono state raramente declinate attraverso una discussione articolata di principi o politiche, ma prendono invece la forma di “beauty contest” in cui ciascuno punta sul vincente di oggi nella speranza che sia anche quello di domani. C’è quindi il pericolo che la coazione a ripetere abbia di nuovo il sopravvento. Se da un lato ci sarà chi insegue il “sogno di una cosa” di sinistra radicale; dall’altro si dirà che la Schulze non rappresenta una sinistra “populista” come quella di Corbyn - omettendo che il leader laburista è un ecologista - e che nel corso della campagna elettorale i Verdi hanno difeso l’Europa, come Macron.

Intervista
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15/10/2018
Certo, c’è sempre qualcosa da imparare dalle esperienze di altri Paesi. Sotto questo aspetto le elezioni bavaresi non fanno eccezione. Che i Verdi abbiano mostrato di avere un solido profilo riformista, che abbiano puntato su messaggi positivi - speranze ragionevoli, non sogni a occhi aperti - quando la Csu si metteva alla rincorsa della destra xenofoba, che abbiano dato prova di riuscire a conciliare il pluralismo interno e l’azione efficace, sono tutti esempi di come una forza progressista possa puntare sull’innovazione politica e vincere.

Tuttavia, questi aspetti esemplari dell’esperienza dei Verdi, per essere compresi e trasformati in insegnamenti, devono essere messi nel contesto politico e istituzionale in cui sono maturati e hanno fatto avvertire i loro effetti. Non possiamo trascurare la particolare sensibilità che la cultura tedesca ha, almeno da due secoli, al tema del rapporto tra uomo e ambiente. Non per nulla è alla Germania del XIX secolo che dobbiamo la sinfonia n.6 di Beethoven e le riflessioni, dense di conseguenze per il formarsi di una coscienza propriamente ambientalista, dei Romantici, e più tardi di Heidegger. Così come non possiamo ignorare la storia travagliata, ma anche piena di risvolti positivi, del rapporto tra la sensibilità ambientalista e le vicende politiche della Germania del XX secolo. Se l’incontro tra ambientalismo e politica ha risvolti inquietanti negli anni Trenta del Novecento, esso ritorna in una luce del tutto diversa alla fine del secolo, con l’impegno di uno dei leader del movimento ambientalista, Joschka Fischer, come ministro degli Esteri. Insomma, in Germania l’ambientalismo è una realtà culturale e politica consolidata, che in tempi recenti ha già dato un contributo al governo del Paese.

Seguire la lezione bavarese per il Pd non significa certo tentare di diventare un “partito ambientalista di massa”. La credibilità dei Verdi in questo campo è fatta anche di campagne e di militanza sul territorio. Un tipo di impegno che il Pd “liquido” e spiccatamente “social” degli ultimi tempi non sembra ben attrezzato ad affrontare.

Anche sul piano dei contenuti, delle politiche, appare difficile immaginare che un partito che si è caratterizzato negli anni della segreteria Renzi soprattutto come orientato alla crescita e alla competitività economica possa riconvertirsi, almeno in parte, all’ambientalismo. Anche quando questo potrebbe offrire una buona occasione per mettere in difficoltà l’attuale maggioranza di governo, come nel caso del condono edilizio per le case abusive di Ischia.

La credibilità in tema di ambiente, insomma, non si improvvisa. Richiede un cambio di prospettiva sul piano delle idee e un’organizzazione che sia in grado di sviluppare una presenza capillare sul territorio. Sotto questo profilo qualche ragione di cauto ottimismo viene dal successo della due giorni organizzata a Roma per lanciare la candidatura di Nicola Zingaretti. La partecipazione di militanti provenienti da diverse parti del Paese è stata significativa e caratterizzata proprio nel senso di una rivalutazione del contributo di tutti. Al modello del leader carismatico inseguito, senza grande successo, da Renzi, il governatore del Lazio ha contrapposto quello di una leadership plurale la cui forza si trova soprattutto nella capacità di unire.

D’altro canto, “molti nemici molto onore” non può essere il motto di un leader che punti a rammendare, come è necessario, le tante lacerazioni di questo Paese. Istituzionali, sociali, ambientali. Molte delle quali sono state aggravate dai governi guidati da Silvio Berlusconi, e rispetto alle quali Renzi non ha mai voluto affermare una discontinuità netta. Si pensi, tanto per fare un esempio, alle politiche dell’istruzione e al Meridione.

Forse è proprio nei riguardi della tenuta del progetto neocentrista perseguito con cocciuta determinazione da Renzi che la lezione bavarese si rivela più interessante. La Spd alleata della Cdu perde consensi, riducendosi ai minimi termini, ma una parte dei voti persi dallo storico partito della sinistra tedesca, che in questi anni ha sempre guardato al centro, vengono probabilmente recuperati da una forza politica riformista, che ha il coraggio di mettere in discussione l’equilibrio politico su cui la Germania si è retta negli anni di questa lunga crisi.

Se l’inquietudine è il segno caratterizzante di questa fase politica, che per molti versi, come sostiene Jan Zielonka, possiamo considerare rivoluzionaria, o meglio, controrivoluzionaria, non è luogo pensare che la via d’uscita dalla crisi in cui si trovano diverse forze politiche dell’area socialista e progressista, e tra queste il Pd, si trovi nella capacità di segnare una discontinuità rispetto al passato recente. In tempi di incertezza e di pessimismo promettere le stesse ricette degli anni Novanta, specie quando esse si siano rivelate, se non del tutto errate, almeno insufficienti, non è una strategia vincente. Indicare la strada del progresso quando più di uno, e non senza ragione, teme di essere tagliato fuori dai benefici che ne derivano, suggerisce disinteresse per chi rimane indietro. Su queste cose nel Pd si è aperta da qualche tempo una riflessione, che si spera vada avanti.

Non bisogna fare come la Schulze, e neppure come Blair, o come Corbyn. Ma bisogna aprirsi, imparare da ciò che è accaduto negli ultimi dieci anni. Dal ritorno di una “questione sociale” che ci eravamo illusi di esserci lasciati alle spalle, e alla quale non siamo più in grado di dare le risposte che apparivano efficaci nella seconda metà del Novecento. Dalla crescente evidenza che il nostro modello di sviluppo appare sempre più in tensione con la sopravvivenza della vita sulla terra, e che l’ipotesi di cambiamenti climatici irreversibili mal si concilia con lo sperimentalismo di cui si è sempre alimentata la cultura riformista. C’è, in ultima analisi, da ripensare il senso dell’essere per la libertà e l’eguaglianza oggi, e le strade per realizzare una società che sia prospera senza trascurare l’equità.