L'indifferenza e i silenzi sui soldi della Lega dimostrano che l'Italia è un Paese malato
Malato è il paese dove le più clamorose e documentate rivelazioni sul potere sono accolte con infastidita indifferenza e tombali silenzi. Perché un terriccio brulicante e oscuro circonda il leader della Lega. Che rivendica sovranità assoluta e alza ogni giorno nuove frontiere
«In questa Europa dove è messa in pericolo la verità, la possibilità di cercare la verità e di dirla, l’Italia non è più un’anomalia. È il laboratorio in cui si sperimenta il futuro. Ce lo racconta l’inchiesta di copertina di questa settimana. Giovanni Tizian e Stefano Vergine accendono una luce sul lato nascosto del viaggio a Mosca del ministro Salvini il 17 ottobre. Cosa è successo in quelle dodici ore di buco della visita? Salvini, interpellato dai nostri giornalisti, non ha risposto alle domande sul suo incontro segreto, fuori dall’agenda ufficiale, con Dmitry Kozak, vice-premier con delega all’energia, uomo di strettissima fiducia di Putin, nell’ufficio dell’avvocato Vladimir Pligin, e della cena che è seguita.
Conosciamo tutto di Salvini, nulla sui suoi social ci viene risparmiato dei suoi pranzi e delle sue cene, ma di questo convivio non c’è traccia. Sappiamo però, e lo documentiamo, che la mattina dopo Gianluca Savoini, già portavoce del capo leghista, l’ambasciatore di Salvini con i russi, incontrò insieme ad altri due italiani nella hall dell’Hotel Metropol il manager Ylia Andreevich Yakunin, vicinissimo all’avvocato Pligin. Si parlò di una mega-partita di gasolio e di un finanziamento per la Lega, da far arrivare per la campagna elettorale in vista del voto europeo di maggio. “La nuova Europa deve essere vicina alla Russia”, spiegò agli interlocutori Savoini. Lo spettacolo servile di un sovranista che omaggia e si prostra di fronte a una super-potenza straniera, in un contesto di personaggi che si richiamano alla purezza delle tradizioni, con il contorno di omofobia e di attacchi a quei diritti civili e individuali che sono il fondamento dell’Occidente. L’affare alla fine potrà essere sfumato, ma resta una esigenza di trasparenza di fronte all’opinione pubblica. Di un ministro che a casa si presenta come difensore dei sacri confini e che piega invece gli interessi nazionali alle sue convenienze. Di una rete di movimenti, partiti, leader che vanno all’attacco della vecchia estenuata Europa, e di quel che resta in piedi del sistema democratico, così come lo abbiamo conosciuto. C’è una doppia fedeltà di Salvini e dei suoi amici europei, alla Nazione e a Putin, che va raccontata e svelata».
In un altro paese, che tristezza doverlo ripetere, l’inchiesta dell’Espresso, firmata da Tizian e Vergine, avrebbe portato a una catena di dimissioni o, almeno, di furenti smentite, rispetto alle quali saremmo stati in grado di replicare senza timori, con la nostra documentazione. La reazione, invece, fu questa: grande interesse della stampa internazionale, infastidita indifferenza (in gran parte) della stampa italiana, silenzio tombale di Salvini e dei suoi. Neppure una smentita, che forse era impossibile e addirittura controproducente, nessuna querela nonostante le minacce, ci mancherebbe. E quando chiesi notizie direttamente a Salvini, durante una maratona televisiva di Enrico Mentana sulle elezioni in Sardegna, era il 25 febbraio, il capo leghista si barricò dietro i non so e non ricordo, come facevano alcuni suoi predecessori alle prese con altri scandali.
Ora il sito americano BuzzFeed conferma e rilancia la nostra inchiesta e suscita pensieri malinconici sullo stato di salute complessivo della nostra politica, del nostro giornalismo, della nostra democrazia. Tutti indignati, oggi. Nel frattempo, Salvini è diventato il capo del primo partito italiano: ce lo raccontano Giovanni Tizian e Susanna Turco sul nuovo numero dell'Espresso questo «terriccio brulicante e oscuro fatto di commercialisti, gente venuta dal nulla, amici di amici», già votato dal 34 per cento degli italiani alle elezioni europee e in crescita, stando ai sondaggi. Il “terriccio” si è giocato il voto degli italiani per acchiappare un paio di poltrone ministeriali nella riffa del rimpasto governativo. Intanto, si è abbassato il livello del dibattito pubblico, infuria la guerra di parole di questa estate nel Mediterraneo, mentre si muore, dall’altra parte del confine.
L’Italia è il paese della doppia frontiera, lo ha ricordato l’anziano combattente socialista Rino Formica intervistato da Walter Veltroni (Corriere della Sera, 8 luglio), tra l’Est e l’Ovest e tra il Nord e il Sud. Un po’ Helsinki, un po’ Tangeri, si riassumeva la nostra politica estera ai tempi della guerra fredda. La prima frontiera fu cruciale nei decenni dei blocchi di Jalta, Gorizia era l’unica città europea divisa a metà oltre Berlino. La seconda, quella liquida del Mediterraneo tra Occidente e mondo arabo, fu intuita e praticata dai grandi leader repubblicani, Aldo Moro più di tutti, e poi Giulio Andreotti e Bettino Craxi, che da quasi venti anni riposa in un piccolo cimitero dell’altra sponda, dove la sabbia del deserto e la salsedine del mare si incontrano e inghiottono tutto. Fabrizio Gatti racconta nelle pagine che seguono il fantasma del muro, trent’anni dopo, tra l’Italia e la Slovenia. Impossibile da erigere tra due paesi che aderiscono all’Unione europea, ma i nuovi muri non sono di mattone, sono fatti di bugie e di paure agitate dai potenti di turno, sono immateriali, virtuali, cementati dalla Rete e dalla propaganda. [[ge:rep-locali:espresso:285334361]] Le nuove frontiere dividono un paese dall’altro. E dividono le persone all’interno dei singoli paesi. Le distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, vietate dalla Costituzione all’articolo 3, riemergono tutte insieme. Le donne sono indebolite dal maschilismo di Salvini, a dirlo è stato il sottosegretario 5 Stelle Vincenzo Spadafora (Repubblica, 9 luglio).
Gli stranieri sono negati nella loro dignità. Il crocifisso è sbandierato contro le altre religioni. I poveri sono disprezzati. E l’inclusione sociale diventa una parola fuori corso. Le frontiere sono fratture che spaccano i quartieri, i luoghi di lavoro, i consigli comunali, il Parlamento nazionale. Impediscono il governo dei conflitti e la soluzione dei problemi, perché ogni interesse si auto-promuove indisturbato, senza nessuna considerazione del quadro generale, del bene comune, come si chiamava un tempo.
I populismi hanno prosperato su questa frammentazione che colpiva le grandi narrazioni del Novecento, il socialismo, il cattolicesimo democratico, il liberalismo attento a non considerare il mercato come un’ideologia totalitaria. I nuovi nazionalisti reclamano una sovranità assoluta e non si accorgono che invece è sempre più limitata. E non sono capaci poi di rispondere al caos delle richieste e delle rivendicazioni.
Nelle frontiere, ogni partito diventa un’isola e anche i leader che si presentano come vincenti e aspirano a essere gli unici rappresentanti del popolo si sentono soli, come li raffigura con poesia Makkox nella storia di copertina del nuovo numero dell'Espresso, soli come gli uomini e le donne che lasciano alla deriva nel mare. Si dichiarano soli, dopo aver fondato il loro consenso sulla solitudine e non sulla possibilità di camminare insieme. Muovono guerra alle Organizzazioni non governative che odiano perché le Ong non hanno leader, nonostante l’ansia di visibilità artefatta dai media, non hanno un comando, sono plurali, molteplici. Sono un modello di quella che Aboubakar Soumahoro chiama “leadership collettiva”. E dunque hanno molto da insegnare, per oltrepassare la frontiera.