Nel caos di voci impazzite, tra impegni dei leader annullati e parlamentari trattenuti a Roma via WhatsApp, dopo l'incontro tra Conte e Mattarella si va verso la crisi con una sola certezza: mercoledì 7 agosto sarà ricordato come il giorno in cui è finito lo strano ibrido generato dal voto del 4 marzo, quello raffigurato a Roma 18 mesi fa dal bacio dello street artist Tvboy, poi regolamentato da un “contratto” più civilistico che politico rivelatosi alla fine solo un fragile accordo di potere, incapace di reggere alle onde del reale, al suo mutare, ai suoi imprevisti.
Una vita fa, nel 1988, un democristiano anomalo e un po' anonimo come Giovanni Goria lasciava Palazzo Chigi - dove era stato premier per quasi un anno, per caso e di passaggio - spiegando il senso del suo mandato più o meno così: sì, si possono fare tanti bei programmi e stabilire obiettivi, ma poi quando sei al governo succedono cose che non ti aspettavi prima e allora tutto cambia. Certo, quello di Goria era un minimalismo grigio, ma in effetti l'imprevedibilità delle cose, là fuori, è un fattore che cambia tutto in politica, e spesso all'improvviso, o almeno molto in fretta. “La realtà è un uccello che non ha memoria devi immaginare da che parte va”, cantava Gaber, e quanto aveva ragione.
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Quando in un giorno di maggio dell'anno scorso Di Maio e Salvini uscirono festanti dalla loro trattativa, la questione più grossa - quella su cui per un po' si bloccò tutto - sembrava il destino di Paolo Savona, una sorta di elegante dottor Stranamore anti euro contro il quale Mattarella s'impuntò, terrorizzato dalle conseguenze in Europa e sui mercati.
Salvini al Viminale invece passava come acqua fresca, cosa normale, così come sinotticamente normale pareva Luigi Di Maio al lavoro: l'uno a occuparsi di ordine pubblico e l'altro di precariato e diritti sociali. «Non mi interessa fare il ministro dell'economia», spiegava lo stesso Salvini a Floris nei giorni in cui ci si era incartati su Savona, «io voglio solo togliere dalle strade un po' di delinquenti e di clandestini». Come dire che lui avrebbe giusto fatto il poliziotto, il ministro della sicurezza, in una divisione dei ruoli e dei poteri che del resto era fra le righe del contratto. E la poltrona scelta da Di Maio sembrava perfino più importante della sua, in un'Italia dove - allora - l'assenza di un lavoro sicuro era indicato come primo problema in tutte le ricerche demoscopiche, molto davanti alla parola immigrazione.
Poi le cose sono andate diversamente, si sa. Salvini ha gradualmente imposto la sua narrazione, la sua "Bestia" mediatica, la sua stazza populista, sfruttando al contempo un vento mondiale (Trump, Putin, Orban...) e le debolezze del competitor al suo fianco. Fino agli atti anche simbolici più evidenti, come la convocazione - al Viminale! - delle parti sociali, quasi a dire che faceva tutto lui, anche il premier e il ministro del Lavoro, tutto.
Ed è per tutto quello che è successo in questi 500 giorni che mercoledì è finito quel contratto di governo che doveva essere «valido per la durata della XVIII legislatura repubblicana», come si leggeva nel suo vanaglorioso incipit.
Le cose sono andate diversamente dal prevedibile perché troppo sbilanciati erano gli equilibri, troppo asimettrica era la realtà: da una parte c'era una macchina rodata - la Lega è il più vecchio dei partiti esistenti in Parlamento - con al volante politici professionisti che da vent'anni studiavano il potere e talvolta lo avevano anche occupato; una macchina peraltro impostata su una base ideologica molto solida, una cultura nazional-sciovinista con alle spalle due secoli di dottrina politica e di letteratura dalla Francia alla Russia (e forse non è proprio che siano questi i due riferimenti maggiori di Salvini, il lepenismo francese il putinismo russo). Dall'altra parte c'era una creatura partitica ancora preadolescente, nata dall'incontro fra un comico-blogger e un informatico visionario, senza una classe politica forgiata alla battaglia e priva di una visione organica di Paese.
Così il reale è stato più forte del contratto e lo ha strattonato fino a renderlo carta straccia, fino a ribaltare i rapporti di forza tra i contraenti e a chiudere i 500 giorni nel fracasso del Papeete e nello show finale di palazzo Madama.
Adesso è il consueto momento degli scenari, in cui ci si esercita a capire quello che verrà dopo.
Salvini ha in mano delle azioni che hanno raddoppiato il valore in un anno e stanno crescendo ancora, deve solo scegliere il momento in cui venderle al massimo, in cui capitalizzarle alle urne.
Probabilmente nemmeno lui ha ancora deciso e sta studiando - da animale politico e uomo di palazzo - tutte le possibili varianti: la finestra breve per votare a ottobre perché poi si rischia un lungo blocco con la riforma costituzionale (quella che taglia il numero dei parlamentare), la finanziaria che qualcuno dovrà pur fare e sarà tutto fuori che una passeggiata, il Quirinale che si appresta a svolgere un ruolo fondamentale.
E così via, fino al mistero di un'opposizione che oggi è così debole in termini di rappresentanza da risultare perfino inquietante per chi è al potere: non sai mai che cosa può scoppiare nel Paese quando l'opposizione non trova un partito che la rappresenta, specie se con la legge di bilancio verranno al pettine i nodi dell'economia, la crescita zero, l'aumento Iva da evitare, gli 80 euro che ballano - e ci mancavano solo i paurosi dati sull'economia trainante, quella tedesca.
Per ora siamo ancora ai giochini di tattica: la testa di Toninelli, magari quella della Trenta o perfino di Tria. Insomma il famoso “rimpasto” a cui Salvini dice di non essere interessato e forse è davvero così, il capo leghista non può rovinare la sua narrazione populista con una rottura sulle poltrone, semmai ha più senso farlo perché “gli impediscono di fare le cose”, cioè la flat tax che nelle sue varie forme può costare dai 15 ai 20 miliardi che comunque non ci sono.
Poi c'è la strategia, che invece è già chiara, cioè prendersi tutto, niente grillini tra i piedi, e portare l'Italia verso un premierato di fatto, lontana dai bilanciamenti e dai controlli che già altri capi di governo - prima di Salvini - hanno cercato di terremotare. Niente grillini tra i piedi ma possibilmente nemmeno Berlusconi, nei disegni di Salvini, ingombrante per storia e rapporti, quindi una maggioranza assoluta dei seggi solo con Lega e Meloni, in fondo già adesso nei sondaggi al 43 per cento – insieme - quindi a un passo dall'obiettivo con l'attuale legge elettorale.
E allora qui sarà tutta questione di anticorpi del Paese, quelli che in passato hanno funzionato, e chissà se funzioneranno ancora, volatile com'è il reale.