Analisi

Perché una legge elettorale proporzionale sarebbe un disastro

di Giovanni Orsina   28 gennaio 2020

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urne elezioni

Governi fragili, continui ricatti reciproci, trasformismo totale. Altro che stabilità: questo tipo di norma finirebbe per avere altri effetti negativi sulla scena politica

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Una fake news si aggira per l’Italia, superiore per assurdità all’assurdità cumulata di tutte le fake news dei bot russi dal 2016 a oggi: col ritorno a un sistema elettorale proporzionale i governi saranno più stabili. È vero che siamo abituati a tutto ormai, dalle forzature più faziose alle menzogne più spudorate, e che nuotiamo in un mare d’ipocrisia di cui si fatica a ricordare l’analogo, ma in questo caso stiamo toccando le vette della neolingua orwelliana: la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza - e la proporzionale è stabilità.

In verità, abbiamo la quasi certezza che l’introduzione della proporzionale aggraverà l’inefficienza e la precarietà che caratterizzano oggi il nostro sistema politico, accrescendone la delegittimazione e il discredito agli occhi degli italiani. E dico “quasi” certezza soltanto perché chi rifiuta la neolingua ha il dovere di lasciare uno spazio, seppur minimo, al dubbio. In un momento nel quale i partiti sono fragili, le ideologie fungibili, gli elettori volubili, innanzitutto, la proporzionale incentiverà il moltiplicarsi dei partiti, le scissioni e ricomposizioni, liquefacendo ulteriormente la già liquidissima sfera pubblica nazionale. Certo, la proposta che è stata presentata in Parlamento fissa una soglia di sbarramento al cinque per cento, proprio per evitare la balcanizzazione. Ma chi ci crede che quella soglia, se il progetto di legge andrà avanti, non scenderà, e di parecchio?

Scordiamoci poi che ci sia mai più data la facoltà di scegliere una formula di governo e un presidente del Consiglio. Voteremo per un partito che non appena chiuse le urne sarà del tutto libero di entrare in coalizione con questo o con quello - o magari, nel corso della stessa legislatura, prima con questo, poi con quello, infine con un pezzo di questo e uno di quello. In Camere popolate da parlamentari raccogliticci e improvvisati, spesso privi di un solido retroterra professionale, con annesso stipendio, al quale tornare in caso d’insuccesso, la sopravvivenza personale a Montecitorio o Palazzo Madama prevarrà su qualsiasi considerazione di natura politica. Il trasformismo regnerà sovrano e nel ricordo, struggendoci di nostalgia, rimpiangeremo i più cinici e spregiudicati democristiani del passato quali esempi preclari di adamantina moralità pubblica.

Un parlamento liquido non potrà che produrre governi ballerini - e governi ballerini saranno necessariamente inefficienti, perché non avranno né la forza né il tempo necessari a pianificare delle politiche pubbliche minimamente significative. L’azione di governo sarà discontinua, imprevedibile e incoerente. E tutto questo in un mondo sempre più pericoloso, nel quale si stanno riaffermando con prepotenza gli interessi nazionali, la competizione geopolitica e geoeconomica, la legge del più forte.

Infine, che cosa penseranno gli italiani di una politica che non li interpella su chi debba governare; di partiti che, senza più avere le robuste radici sociali del Novecento, si prendono il loro voto e poi ne fanno quel che vogliono; di acrobatiche e impudenti giravolte trasformistiche; di continue scissioni e ricomposizioni; di parlamentari che pensano unicamente alla propria sopravvivenza personale; di scelte di governo incongrue e inconsistenti? Come non pensare che tutto questo non finisca di distruggere la credibilità e legittimità delle istituzioni rappresentative?

Ma l’Italia deve tornare alla proporzionale, dicono, perché la stagione bipolare, 1994-2013, non ha dato buoni risultati. E questo dimostrerebbe che il Paese non è adatto alla “durezza” dei sistemi maggioritari, nei quali chi vince piglia tutto, ma ha bisogno della “morbidezza” di quelli proporzionali, che costringono a creare coalizioni ampie. Il bipolarismo in parte ha deluso, è vero - soprattutto rispetto alle aspettative miracolistiche che l’introduzione del maggioritario aveva generato all’inizio degli anni Novanta. Ciò nonostante, quella rimane l’unica stagione nell’intera storia dell’Italia unita, dal 1861 a oggi, nella quale gli italiani abbiano realmente potuto scegliere chi dovesse governarli. Vi pare poco? A me francamente no. Tanto più che continuiamo a scegliere chi ci governa nei comuni e nelle regioni, e anche se questo non ci dà garanzia di buona amministrazione, possiamo almeno mandare a casa chi amministra male. Sarebbe ridicolo continuare a farlo a livello locale e non poterlo più fare a quello nazionale.

Ma l’Italia deve tornare alla proporzionale, dicono, perché ormai di poli ce ne sono tre, e un sistema elettorale maggioritario distorcerebbe troppo la rappresentanza. Ma questo è stato molto più vero fra il 2013 e il 2019 di quanto non sia oggi. Durante i quindici mesi del primo governo Conte, piaccia o non piaccia, Matteo Salvini è diventato l’elemento dirimente del sistema politico italiano: oggi si sta con lui o contro di lui. Poiché Salvini è schierato a destra, la sua ascesa ha restituito centralità alla frattura “classica” fra destra e sinistra. Il Movimento 5 stelle - che nella stagione delle grandi coalizioni rese necessarie prima dalla crisi del debito sovrano nel 2011-2012, e poi dai numeri parlamentari nel 2013-2018, aveva costruito la propria fortuna sul superamento di quella frattura e raccolto consensi da una parte e dall’altra - ne è stato devastato.

Oggi perciò la “anomalia” grillina è in via di superamento: il Movimento dovrà presto scegliere da che parte stare, oppure scindersi, o infine scomparire. E questo da un punto di vista sistemico è un gran bene, perché semplifica e chiarisce, consentendo di rendere più trasparente l’attribuzione delle responsabilità politiche. Introdurre la proporzionale non significherebbe quindi adeguare il sistema elettorale a un tripolarismo maturo e consolidato. Al contrario, significherebbe arrestare o rallentare artificialmente l’evoluzione naturale della politica italiana da una situazione ambigua e disfunzionale verso una più lineare ed efficiente. Si capisce perché il Movimento 5 stelle non desideri altro: ne va della sua sopravvivenza. Che il Partito democratico gli corra dietro, invece, è assurdo.

Ma l’Italia deve tornare alla proporzionale, dicono infine, perché altrimenti vince Salvini. Lasciamo stare l’argomento sacrosanto ma in Italia ormai inutilizzabile per il quale le regole del gioco non andrebbero fatte per penalizzare un giocatore - anche perché la prima di tante porcate (cit.) sul sistema elettorale l’ha fatta Berlusconi nel 2005, col contributo attivo della Lega. Il punto è un altro ed è fattuale, non di principio: la proporzionale non soltanto non fermerà Salvini, ma rischia anzi di renderlo più forte e più radicale - se non addirittura, nel medio periodo, di favorire l’emergere di fenomeni politici più estremisti del salvinismo. La proporzionale non fermerà Salvini perché la destra è già ora maggioranza, e più le forze antileghiste daranno l’impressione di essere arroccate in un Palazzo assediato dal Paese, con l’unico obiettivo di sopravvivere aggrappate al potere, più crescerà. A meno di un radicale cambio di passo del governo, a oggi del tutto improbabile, s’illude chi pensa che in queste condizioni l’opposizione sia destinata a sgonfiarsi. E questa dinamica rischia fra l’altro di risucchiare nel conflitto le istituzioni di garanzia, indebolendone la credibilità agli occhi di una parte importante del Paese.

Ma soprattutto, se il ragionamento che ho svolto finora ha un senso, ossia se le condizioni storiche esigono che l’Italia abbia un governo forte e coerente, e la politica risponde invece a questa sfida rendendolo ancor più debole e incoerente di quanto già non sia, corriamo allora il serio rischio di generare un contraccolpo: che la richiesta di autorità monti ancora, e che trovi risposta in forze politiche sempre meno preoccupate degli equilibri democratici e delle garanzie liberali. «Fra poco si udrà un grido formidabile in tutto il pianeta», scriveva nel 1930 José Ortega y Gasset, «che salirà, come l’ululato d’innumerevoli mastini, fino alle stelle, chiedendo qualcuno e qualcosa che “comandi”, che imponga un obbligo o un impegno». Le circostanze odierne, per buona fortuna, sono diverse da quelle di allora. Cerchiamo di far sì che restino tali.