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Il premierato di Giuseppe Conte è infatti breve, per quanto - tra maggioranze opposte e pandemie - sembri ormai un regno lunghissimo, vasto, interminabile: 461 giorni per il Conte uno, 460 giorni è il totale del Conte due fino al 9 dicembre, giornata campale del voto sulla riforma del Mes. Totale: 924 giorni, esattamente cento in meno dei 1024 in cui ha governato Matteo Renzi, il leader di Italia viva che al momento si presenta, se non altro per mossa scenica e necessità, come il suo più tenace avversario interno, nella compagine di un governo sul quale pende come una promessa un rimpasto prossimo venturo (appena un passo più indietro ci sono gli altri due protagonisti del terzetto Zdr: il leader M5S Luigi Di Maio e il segretario del Pd Nicola Zingaretti). Lo dimostra l’ultima lunga giornata parlamentare, la prima appena vivace dopo un sacco di tempo, risoltasi appunto - al netto del Cinque Stelle Sant’Angelo che dichiara in dialetto siciliano e della senatrice Binetti che giura non voler fare «la stampella - con il leader di Iv che lancia il penultimatum, come nella più classica delle dinamiche parlamentari pre-natalizie. Dice Renzi: se il metodo è quello di «saltare il dibattito in Parlamento» sul Recovery Fund, introducendo la task force che lo gestirà con un emendamento alla legge di Bilancio, e se si pensa di fare altrettanto con la “fondazione” per i servizi segreti, ecco allora «noi votiamo contro. E ci sono a disposizione tre posti nel governo», annuncia in Aula il capo dell’Iv, a sera.
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La piramide, invece, la si era vista fisicamente dispiegarsi già nel primo pomeriggio, sempre al Senato, quando il premier - definito dal Fdi Adolfo Urso «attaccato al suo tesoro come Gollum nel Signore degli anelli» - ha parlato in piedi, tra il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, seduto alla sua destra, e il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli alla sua sinistra. Elementi essenziali, i due, del triumvirato pensato dal premier come sommo gradino della gestione del Recovery Fund, apice sotto il quale ci dovrebbero essere sei manager, sotto i quali i 90-300 tecnici (mentre probabilmente per trovare nei paraggi di questa struttura un qualche altro membro del governo si dovrà cominciare a scavare). Tale è il progetto di task force, come si sa, che il premier ha spedito ai ministri nella notte di Sant’Ambrogio per gestire i 209 miliardi dei fondi europei: una idea ferocemente avversata anzitutto da Italia Viva che per giorni ha minacciato di tutto (inutile, si è detto per sottolineare la gravità della situazione, persino la mediazione del capodelegazione dem Dario Franceschini), progetto da discutere in Consigli dei ministri via via prudentemente rinviati per evitare strappi alla vigilia del Consiglio europeo.
Tale è però, al netto dell’esito specifico, l’immaginario del premier: piramidale. Un super governo dei manager, al riparo dalle liturgie parlamentari, dovrebbe essere tra i sogni più sfrenati: formato non tanto da tecnici in senso classico, quanto da esperti nominati, più docili e riconoscenti. Tendenza Domenico Arcuri, insomma, più che Mario Draghi. Una task force esecutiva nella quale l’accentramento di ogni decisione non è una richiesta di “pieni poteri” da sbandierare come fece a suo tempo il leader leghista Matteo Salvini: piuttosto, è il mero effetto di una complessa architettura. Una «struttura tra terra e cielo, in una no-man’s land, di stile rococò, della quale non si capisce la natura», come l’ha superbamente definita Sabino Cassese in una intervista alla Stampa.
Attaccata da tutti i lati, la task force è in realtà l’ennesimo fiore nel giardino del presidente del Consiglio - dopo il comitato tecnico scientifico, dopo il team Colao, dopo i dimenticatissimi Stati generali - e ha la sua origine nella formula extra politica su cui si è fondato il tutto. A partire dal dettaglio che l’uomo più vicino al premier, il suo segretario particolare sia Andrea Benvenuti, 28 anni, già praticante presso lo studio di Guido Alpa, non propriamente un patito della politica. E che il fedelissimo mandato anche adesso a dare un occhio alle più delicate riunioni grilline sia il suo capo di gabinetto, Alessandro Goracci , 43 anni, alto funzionario del Senato: forse il massimo della concessione alla politica-politicante, per Conte.
Arrivato da marziano a Palazzo Chigi nel giugno 2018, come portavoce o ventriloquo dei suoi due vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini (anche quella una piramide, in fondo, ma rovesciata), è in realtà nell’ultimo anno che il premier ha dispiegato fino in fondo quella sua estraneità alla politica che lo rende, tendenzialmente, favorevole alla creazione di organismi paralleli rispetto a quelli previsti. Laddove per dire Renzi per smania decisionista voleva snellire il Parlamento eliminandone uno dei due rami - quel Senato che invece adesso per ironia gli offre il massimo della visibilità -, Conte invece snellisce per moltiplicazione, affiancando struttura a struttura. Sveltire disorientando: ecco il metodo. A dicembre 2019, un anno fa, discuteva ancora nel pieno la riforma del Mes e assicurava che avrebbe risolto tutto con la «logica del pacchetto», vale a dire condizionando ogni suo presente sì ad un futuro no, tipo piramide di Rubrick.
Essenziale, per fargli fare il salto, la pandemia. Bravissimo sempre a proclamarsi uno destinato a restare (sin qui riuscendoci peraltro), cosa che con notevole sprezzo del pericolo faceva già nell’autunno 2018, Conte è completamente cambiato proprio a cavallo d’inizio anno. Ancora a gennaio 2020 infatti riceveva a Palazzo Chigi il direttore della Verità Maurizio Belpietro per una lunga intervista (due ore: le stesse che a luglio 2018 aveva riservato al direttore del Fatto, Marco Travaglio), circumnavigava attorno ad ogni domanda, si vantava, si difendeva dalle accuse di essersi trovato in conflitto di interessi perché il suo maestro, Guido Alpa, faceva parte della commissione di concorso che nel 2002 lo designò professore ordinario, argomentando avvocatescamente che «perché sussista conflitto d’interessi ci deve essere cointeressenza economica». La cointeressenza.
Ecco poi si è abbattuto sull’Italia il Covid-19 e tutte queste danze sono state tagliate via. È arrivata in compenso la pioggia dei Dpcm, che solo adesso, in piena seconda ondata, hanno ricevuto una minima cornice parlamentare. Sono arrivati i bracci di ferro con le Regioni. Sono arrivati i Consigli dei ministri senza fine e le conferenze stampa a tarda sera quando non in piena notte, rinviate di ora in ora come in precisa una strategia ansiogena. Le comunicazioni alle Camere sono state trasformate in semplici informative per evitare il voto d’Aula. E ancora di fronte all’accusa di accentrare e confondere le acque la risposta è sempre stata che, invece, a rendere tutto così farraginoso era l’immacolata necessità di mettere tutti d’accordo, un desiderio autentico di democratica unanimità. Parola di Rocco Casalino.
Sempre la pandemia, intanto, allontanava i giornalisti dai palazzi, dai Transatlantici, dalle tribune stampa di Camera e Senato, diradava le domande: sempre meno, sempre meno ficcanti. C’è il virus del resto, no? Ed ecco in giugno l’apoteosi degli Stati generali: non quelli attorno cui si è affannato invano il reggente dei Cinque stelle Vito Crimi, ma quelli dell’economia che con spudorata sicumera Conte mise in piedi a Villa Pamphili (non una sede istituzionale, ancora una volta) per riprendersi in mano il boccino delle decisioni, dopo aver liquidato come “schede di lavoro” i risultati della task force Colao, argomentando che era ora di «creare specifici progetti da inserire nel Recovery plan». Risultato finale: lo smilzo documento preparatorio inviato a metà ottobre, prodromico al famoso Pnrr di cui si parla adesso. Mentre il dibattito politico ha il suo fuoco nella task force del Recovery fund.
E aleggia, come capita spesso in dicembre, lo spettro del voto parlamentare che «fa tremare» il governo. Il penultimatum stavolta è caduto sulla mozione di maggioranza per la riforma del Mes, che ha appunto infiammato tutti i giorni precedenti il dibattito, prima di scendere bruscamente nel fatidico giorno. Per ora rinviato a data da destinarsi, ma ormai forse all’orizzonte. Sempre che, come dice qualcuno, la formula «i senatori di Italia viva le augurano buon lavoro», usata da Matteo Renzi, sia davvero il nuovo «stai sereno», versione pandemia.