La proposta

"Governare Roma non è come stare in sala operatoria. Per questo il mio metodo ha fallito"

di Ignazio Marino   12 gennaio 2021

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Ignazio Marino

"Serve un progetto che sia condiviso con il popolo: non è possibile cambiare tutto e subito ed è forse anche immorale prometterlo" . L’ex sindaco indica 5 pilastri su cui ricostruire la città

Ignazio Marino
Conosco Roma dal 1969. Entrarvi alla fine degli anni ’60, attraversando le borgate poverissime e i palazzi dei quartieri popolari, era come introdursi in un mondo nuovo attraverso un caleidoscopio con i suoi piccoli oggetti colorati, capaci di comporre e ricomporre immagini costantemente mutevoli. Che alla fine trovano un proprio ordine a partire dal centro.

Ci vollero anni perché riuscissi a comprendere che qualcosa di simile era accaduto al disegno urbano della città. Il centro storico, che si sviluppa quasi a completare il parco archeologico centrale, è stato disegnato da architetti che avevano un’idea di armonia ed equilibrio. Invece, quando Roma ha cominciato a crescere in modo vertiginoso, nella seconda metà del secolo scorso, è divenuta vittima di occupazioni di suolo, costruzioni abusive, disordinate e senza una strategia di comunità. Non mi riferisco solo al fatto che a Roma, dagli anni ’80, siano state aperte circa seicentomila pratiche di condono edilizio, dimostrando che il 60 per cento delle nuove abitazioni ha un abuso, ma al fatto, assai più grave, che si sia permesso di costruire senza una adeguata rete di trasporti, senza una distribuzione coerente delle scuole, dei mercati, dei luoghi di cultura e di culto.

A Roma esistono interi quartieri privi di rete fognaria, di illuminazione e di trasporti pubblici, ma anche aree prive di acqua corrente potabile dove ancora oggi vivono migliaia di famiglie. Divenuta Capitale nel 1871, la Roma meravigliosa e struggente dell’archeologia e dell’edilizia realizzata tra il Cinquecento e il Settecento è un’area relativamente piccola che ospita meno abitanti di Perugia. La maggioranza delle persone vive in vaste aree lontane dal centro, povere in servizi e spesso degradate. La bellezza della Roma storica sopravviverà nel tempo, ma Roma non può divenire una comunità senza una nuova visione urbanistica, oggi assente. D’altra parte, è impossibile promettere di trasformare Roma in una vera comunità e in una coesa metropoli moderna in pochi anni. Occorre indicare delle priorità e avere la determinazione e l’umiltà di discuterle con la popolazione. Infatti, non ci si può affidare alla classe dirigente, divisa in corporazioni concentrate sui propri privilegi e benessere, e che ignora la città che pulsa nelle borgate più periferiche.
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È necessario condividere un progetto con il popolo che, a ragione, diffida di chiunque si avvicini cercando di disegnare il suo futuro e preferisce chi, urlando, accende rabbia, risentimento, odio: sentimenti alimentati dal disagio e dalle distanze sociali. Non sto criticando altri ma proponendo un metodo. Il mio negli anni 2013-2015, nonostante qualche successo, è fallito perché si fondava sull’idea, sbagliata, che sarebbe stato come in una sala operatoria dove, al termine di un intervento riuscito tutte le tensioni scompaiono. Non è così facile se vuoi trasformare una città. Oggi anche l’approccio scientifico di Ernesto Nathan, modello di modernità e laicità, risulterebbe insufficiente. I grandi successi sono spesso frutto dei fallimenti e della loro analisi rigorosa. Non è possibile cambiare tutto e subito ed è forse anche immorale prometterlo. Vanno scelte alcune priorità, condividerle con la popolazione e mettersi al lavoro. Oggi ne indicherei cinque, realizzabili e misurabili: trasporti, rifiuti, cultura (scolastica, sportiva e musicale), sicurezza, archeologia. Sorprenderà l’ultima priorità, ma resto convinto che essa rappresenti un motore economico per creare posti di lavoro stabili e qualificati, una opportunità di ricchezza da distribuire nel vero grande corpo di Roma, fuori delle mura Aureliane. Recentemente, con la guida dei migliori esperti di finanza internazionale, abbiamo calcolato che l’indotto di un investimento organico sul parco archeologico centrale porterebbe a Roma circa un miliardo di euro all’anno. A questo si aggiungerebbero le donazioni dei filantropi che finanzierebbero nuove attività catalizzando nuovo indotto. Un esempio: pochi sanno che in corrispondenza di una curva del Circo Massimo è stato rinvenuto un secondo arco di Tito voluto dall’imperatore per il suo ingresso agli eventi sportivi. Un imprenditore saggio, o semplicemente astuto, l’avrebbe riportato alla luce e valorizzato con risorse private. Cosa ha fatto Roma? Lo ha sepolto.

Dotare Roma di mezzi di trasporto adeguati a una metropoli moderna richiede soltanto l’utilizzo delle risorse esistenti. I soldi per i trasporti pubblici a integrazione del costo del biglietto, che in Italia, per ragioni sociali, è giustamente mantenuto al di sotto del costo reale del servizio, derivano dallo Stato attraverso il Fondo Nazionale Trasporti, distribuito proporzionalmente al numero degli abitanti. Il Lazio, con quasi sei milioni di abitanti, riceve circa 576 milioni di euro all’anno, la Lombardia, con dieci milioni di abitanti, 853. Ma Roma ha un territorio di milleduecentottantacinque chilometri quadrati, mentre Milano ne ha solo settecentotré.

Nel 2014, per i trasporti, Roma ha ricevuto dalla Regione Lazio centoquaranta milioni di euro, mentre la Regione Lombardia ha destinato a Milano più del doppio. Addirittura, il finanziamento per autobus, tram e metropolitane destinato a Roma dalla Regione Lazio nel 2013 era pari a zero euro. Roma non solo è la città più estesa d’Italia ma è anche la Capitale e ha diritto di avere la propria quota del Fondo Nazionale Trasporti modificando le modalità di finanziamento con uno stanziamento diretto dello Stato, senza la Regione come inefficiente intermediario. Se solo si decidesse che i quasi cinquecento milioni di euro del trasporto pubblico locale, invece di fermarsi sul conto corrente della Regione, venissero effettivamente distribuiti e utilizzati, in breve tempo si potrebbero completare i pochi chilometri mancanti all’anello ferroviario nella parte Nord di Roma, riattivando le gallerie tra Vigna Clara e Valle Aurelia, inaugurate durante i mondiali del 1990 e chiuse, dopo pochi giorni, per i successivi trent’anni. Una vicenda incredibile. Per il completamento dell’anello ferroviario, di cui si parla da centodieci anni, servono poco più di cinque chilometri di rotaie e un nuovo ponte sul Tevere: un obiettivo piccolissimo che rivoluzionerebbe tempi e certezze negli spostamenti di milioni di persone.
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Per quanto riguarda i rifiuti, il 30 Settembre 2013 la chiusura di Malagrotta, la più grande discarica d’Europa, prevedeva un piano alternativo, sviluppato secondo tre direttrici: autonomia degli impianti, riduzione dei costi con incremento della produttività dei servizi e sviluppo della raccolta differenziata. Lo ritengo ancora un piano valido basato sul potenziamento degli impianti pubblici esistenti e sulla realizzazione di nuovi ecodistretti dotati di biodigestori per la produzione di gas, e quindi ricchezza, dai rifiuti umidi che a Roma ammontano a quasi 500.000 tonnellate/anno e impianti per il trattamento delle plastiche e della carta. Infine, un breve ragionamento sulla raccolta differenziata: un obiettivo strategico per Roma. Tra il 2013 e il 2015 la portai dal 31,1 % al 41,2%. Nei 5 anni successivi, invece, si decise di frenare drasticamente la raccolta differenziata che nel 2016 passò dal 41,2% al 42,88%: solo 1,7% di incremento. Nel 2017, solo il 3,4% di incremento. Nonostante questi ultimi e scoraggianti dati, è possibile riprendere il percorso del 2013-2015. Sulla cultura rimane importante la visione di Renato Nicolini di creare una comunità che si ritrovi nel centro archeologico della Capitale, così come l’intuizione di alcuni Sindaci di istituire luoghi di formazione e cultura in ogni area della città. È essenziale per unire una comunità e motivarla, restituendole rispetto, dignità e sogni. Portare spettacoli, come quelli dell’Opera di Roma, nelle aree più periferiche della città è sempre stato accolto con entusiasmo. Oggi questo potrebbe essere finanziato dal pubblico ma affidato al coordinamento di artisti e manager culturali che nelle borgate ci sono nati e le frequentano quotidianamente, non solo durante le campagne elettorali.

Il tema della sicurezza richiede certamente un maggiore investimento in risorse per le Forze dell’Ordine ma anche obiettivi precisi e non coltivati a scopo sensazionalistico. Serve maggiore presenza di Polizia e Carabinieri ma anche identificare le aree dove alcune attività, come la prostituzione, non siano tollerate e serve sottrarre interi quartieri alla piaga dello spaccio. E servono investimenti in illuminazione e videosorveglianza capillare in ogni angolo della città. Chiunque compie un reato o una violenza deve sapere che sarà individuato. Ma serve anche una visione ulteriore, vasta, contemporanea e strategica. La pandemia ha portato con sé un insegnamento riguardo al nostro modo di lavorare, studiare e spostarci. Abbiamo appreso che molte attività possono essere svolte a distanza. In una città come Roma dove circa il 50 per cento delle persone fa lavoro d’ufficio, non è necessario spostarsi ogni giorno. Non possiamo immaginare delle periferie sulle quali investire anche il denaro che fino ad oggi è stato speso in costosi uffici nel centro della città e che fino a qualche mese fa venivano considerati indispensabili? Dovremmo invece creare spazi ed economie “glocal”, globali e locali insieme, decentrando non solo le attività lavorative ma anche il potere amministrativo, determinando un rapporto diverso tra le amministrazioni dei quindici municipi e i loro abitanti. Ma, soprattutto, le periferie verrebbero sollecitate e aiutate a divenire comunità autonome, valorizzando le loro peculiarità umane, culturali e urbanistiche. Un percorso che richiederà anni e che alla fine lascerà al Sindaco di Roma solo alcune aree strategiche come i trasporti, ambiente e rifiuti e l’area archeologica, per le quali sono necessari cambiamenti netti nei poteri.

È irragionevole che il Sindaco della Capitale sia visto come responsabile di queste aree strategiche mentre le leggi impediscono di fatto ogni sua decisione. Il Sindaco di Roma non può infatti decidere sui trasporti perché i fondi sono controllati dalla Regione Lazio, non può decidere sullo smaltimento dei rifiuti perché le autorizzazioni necessarie sono anch’esse competenza della Regione Lazio. Non può nemmeno prendere decisioni strategiche sul fiume Tevere perché il Comitato Istituzionale di Bacino del Fiume Tevere, istituito nel 1989, comprende tra Ministri e Presidenti di Regione 12 membri ma non il Sindaco di Roma. In altre parole, hanno diritto di parlare il Presidente dell’Emilia-Romagna, della Toscana e dell’Umbria (dove il Tevere nasce e scorre) ma non il Sindaco della Capitale. Il fatto che il Tevere attraversi Roma per le Istituzioni Nazionali è irrilevante. In altre parole, se ponte Milvio, con i suoi duemila anni di storia, rischia di crollare per una piena, il Sindaco di Roma non può imporre la chiusura della diga di Corbara a monte della Capitale.

E il Sindaco non può investire sul parco archeologico centrale perché i suoi poteri sono controllati da quelli, assai più ampi, del Ministro della Cultura. Tutti sanno che si discuteva della pedonalizzazione dell’area dei Fori Imperiali da oltre cinquant’anni: credo che nessuno sappia che quella decisione del 3 agosto 2013 io la presi non utilizzando (come sarebbe logico) strumenti normativi a difesa dell’archeologia, bensì aggirandoli con i poteri che il Sindaco ha sul traffico. Se avessi preteso la chiusura dei Fori Imperiali alle macchine per proteggere i monumenti non avrei avuto il potere di farlo.

Insomma, la Roma del futuro la immagino come una federazione di cantoni in cui la metropoli non sia più un burocratico, pesante e inefficiente organismo centrale, ma più che un luogo un’idea e una simbologia. Un’idea riconducibile alla grande intuizione di Renato Nicolini, ma ricca nelle sue periferie che diverrebbero centri di altrettante comunità con netto miglioramento della qualità di vita. Non si tratta di una semplice riorganizzazione amministrativa, bensì di un cambiamento radicale di stili di vita fondati su relazioni e spostamenti geograficamente locali e una missione globale del centro storico. Una nuova Roma, “glocal”, gentile e attenta nel servizio alla popolazione ma superba nel suo ruolo universale. Quel caleidoscopio che ho citato all’inizio non avrebbe più bisogno di trovare il proprio senso solo nel centro. E, da ultimo, servirebbe anche una classe dirigente che ami Roma più dei propri interessi. Ma anche in attesa della giusta classe dirigente si può avviare un percorso virtuoso. D’altra parte le rivoluzioni partono dai sogni e dalle idee, non dai privilegi.