I vertici chiusi a riccio, l’alleanza tardiva con i Cinque stelle ormai massa informe, i parlamentari trattati come amanuensi, la sfida finta delle Agorà. Pronostico per il Campidoglio: «Alle primarie parteciperanno solo in ventimila. Al ballottaggio andranno destra e Raggi». Parla l’ex sindaco

Giura che non tornerà in politica, anche se ne parla con la passione di chi è destinato a riprovarci. Pensa che il Pd sia un malato terminale, condannato dalla sua stessa chiusura al confronto, che la competizione per Roma già segnata dalla sconfitta: e non tanto per le primarie (dove sostiene il suo ex assessore Giovanni Caudo), ma per il voto vero e proprio. Nel giorno in cui i dem affrontano le primarie a sindaco meno combattute della storia, Ignazio Marino, protagonista dell’edizione più partecipata, sindaco di Roma dal 2013 al 2015, quando fu sfiduciato dal suo stesso partito, davanti al notaio, al termine di una furibonda campagna mediatica, siede ancora dalla parte del trauma. Un trauma a questo punto, più degli elettori che suo.


Marino è la cattiva coscienza dem, il monito vivente, una specie di ritratto di Dorian Gray di un pezzo della sinistra: la rappresentazione di cosa poteva essere e di cosa, invece, è stato. In tutto simile, in questo tratto, a Enrico Letta, l’altro grande decapitato nella furiosa stagione renziana: solo che Letta, da tre mesi, da segretario del Pd è tornato di qua, dalla parte mobile della politica di tutti i giorni, dove le ferite, volendo, si rimarginano (mentre se ne creano, magari, delle nuove). Marino invece se ne sta altrove: ieratico discrimine, punto di non ritorno. Certe cose, dopo di lui, sono entrate in uso. Certe altre, al contrario, non si sono fatte più. Lui, fuori dalla politica, fa di nuovo il medico, diciamo per semplificare, a Philadelphia. Adesso è executive vice president della Jefferson University e del Jefferson Health con 14 ospedali.

Come vede Roma adesso, da fuori?
«Sono cambiate alcune cose, non solo a Roma. La classe imprenditoriale, anzitutto, non ha voglia di rischiare. Prendiamo l’esempio dei Mercati generali. Un’area di molti ettari, praticamente in centro, che il sindaco ha dato a imprenditori privati nel 2006, con l’idea di realizzare un nuovo pezzo di tessuto urbano. Mi viene un’angoscia, ogni volta che arrivo in treno dall’aeroporto, e vedo questa unica gru, sempre senza gruista. In alcuni punti, non ci sono le erbacce: ci sono ormai alberi. Come è possibile? La popolazione è scoraggiata, c’è una sottile nuvola di depressione che avvolge tutto, qui si mescola il sarcasmo romano alla convinzione che nulla possa cambiare. E questo, c’è chi l’ha detto meglio di me, incide sul Pil. Le persone devono avere entusiasmo, per guardare avanti: ma come fa un popolo a farlo se vede una classe dirigente che lascia per 16 anni una gru senza gruista? L’emulazione è un elemento importante nel comportamento umano».

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L’emulazione conta anche nella sua, di storia: dopo la sfiducia applicata via notaio, si è perso il fluido magico dell’elezione diretta del sindaco, introdotto con la legge del 1993. Prima era un posto ambito: ora non vuole andarci nessuno.
«In quella vicenda, il Pd, e non lo dico con gioia, ha riportato i calendari indietro, a prima del ’92. Ha dimostrato l’inutilità di quella legge, pensata per superare la pratica di sindaci e consigli che si facevano e disfacevano nel chiuso delle stanze, per esclusivo volere dei partiti. Hanno affermato, di nuovo, il principio che quel che conta sono le decisioni dall’alto: non che tu sia stato eletto con 700 mila voti. Un partito che ha perso smalto, che ha perso tutto, se vuole ti manda a casa: dice siamo in 15, 18, 26, non importa; abbiamo deciso così. Risultato: è difficile trovare chi voglia fare il sindaco, mestiere con moltissimi rischi e pochissime protezioni».

Oggi si celebrano le primarie: alle sue parteciparono 110 mila persone. A Torino, la settimana scorsa sono andati in 12 mila contro i 53 mila della volta precedente. Adesso per Roma si parla di 50-30 mila. Che succede?
«Del 2013 ricordo che mi tranquillizzarono le file lunghissime ai seggi: io ero l’outsider, il candidato del Pd era David Sassoli, correva anche Paolo Gentiloni. Le file significavano che c’erano cittadini veri, non solo i partiti. Gente coinvolta anche dai confronti televisivi. Il fatto che stavolta il Pd abbia detto no ai confronti in tv, abbia tenuto così basso profilo e abbia chiesto di ritirarsi a tutti candidati dem che potevano mettere in pericolo la vittoria di Roberto Gualtieri, incluse donne come Monica Cirinnà, parla da solo. Ma come, prima fai la battaglia per le capogruppo donne e poi laddove c’è un vero ruolo di leadership, perché il sindaco di Roma è questo, dici: spostati perché c’è un maschio?».

Non le piace Roberto Gualtieri?
«È una persona perbene, si è fatto stimare da europarlamentare, non ho condiviso alcune sue scelte al governo, come quella di investire in F35 in mezzo alla pandemia. Quel che non mi piace è questa modalità: non ci può essere un candidato che immagini di passare attraverso primarie fatte senza un dibattito. Ma questi vogliono fare sempre così: rifiutano il dibattito. Ma senza un confronto, che idee vuoi mai avere? Nel Pci e nella Dc non erano mica tutti d’accordo, non avevano il candidato unico, c’erano divisioni anche molto forti: tra Pajetta e Amendola, per dire, c’era un oceano. Ma si confrontavano. Nel 1978, l’anno del rapimento di Aldo Moro, Dc e Pci hanno fatto la legge 194, l’istituzione del servizio sanitario nazionale e la legge Basaglia. Quella è politica: anche interventi nelle stanze chiuse, ma anche confronto vero. Non lo vedo da nessuna parte».

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È per questo che ha sconsigliato a Carlo Calenda di partecipare alle primarie?
«Un conto è fare una corsa a regole chiare, ma se chi gestisce la gara fa di tutto per rendere l’obiettivo non contendibile, che senso ha? E credo che con l’idea del candidato unico andranno a votare in pochi, organizzati dai candidati presidente. Roma è suddivisa in quindici Municipi, diciamo mille votanti a Municipio? Alla fine saranno ventimila».

Cosa sono adesso le primarie?
«Un esercizio del quale la classe dirigente Pd vorrebbe fare a meno, ma non può. Si alienerebbe altri elettori, oltre ai milioni già persi in questi anni. E già rischia tanto così: perché l’altra competizione, quella vera, non è che la perdono: neanche la vedono».

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Sta dicendo che il Pd a Roma rischia di non arrivare neanche al ballottaggio?
«È una cosa drammatica, ma non ci vuole la scienza infusa per capirlo. Nel 2013 ho vinto con il 64 per cento dei voti, la destra ha preso il 35 per cento, e quello prende, tradizionalmente, a Roma. Resta da spartirsi dunque il 65 per cento: ma se al primo turno ci sono Raggi, Calenda, Gualtieri, e Michetti, è chiaro che nessun altro arriverà al ballottaggio che non sia il candidato di destra e la sindaca uscente. E a quel punto che fai? Non vai a votare? Voti Raggi?».

Di recente la sindaca si è scusata per l’aggressività della campagna condotta contro di lei, per una inchiesta che poi si è rivelata fasulla. Che effetto le ha fatto?
«Al di là della valutazione politica, che è tutta un’altra cosa, ho apprezzato il coraggio di metterci la faccia. Può darsi si tratti di una operazione strumentale, certo. Ma ho notato la diffferenza, rispetto alla soluzione pilatesca adottata da Gualtieri che, pur appartenendo nei dem alla stessa corrente di coloro che mi hanno cacciato, ha detto: vicenda di Marino? Non me ne sono mai occupato».

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Prima ancora di fare il sindaco, lei ha partecipato anche alle primarie per la segreteria del Pd, nel 2009, con Bersani e Franceschini. Insomma ci ha creduto molto: nel meccanismo e nel Pd. In cosa l’ha delusa?
«Molte cose che sostenevo e che apparentemente la classe dirigente condivideva, alla prova dei fatti non venivano praticate. Porto un esempio che riguarda Bersani, persona per la quale ho stima e affetto, nonostante i tanti contrasti. Dopo aver perso le primarie, gli chiesi ripetutamente che facesse un gruppo di lavoro per individuare i candidati al Csm, che si dovevano eleggere di lì a poco. Lui mi diceva sì, poi non faceva nulla».

Quando anche lei era un capocorrente?
«Mi rimproverano tutti di non aver mai agito da capocorrente, e sono molto arrabbiati per questo. Comunque, all’epoca, visto che Bersani non faceva nulla, seguo il regolamento, raccolgo le firme e ottengo una riunione urgente con segretari e gruppi parlamentari alla sala della Lupa, alla Camera. Domandano: chi si iscrive a parlare? Alzo la mano, ero l’unico. Oggi mi dispiace averla messa giù così pesante. Dissi: ma scusate, se tutto si riduce al fatto che la segreteria poi distribuisce un bigliettino coi nomi dei componenti da votare, non vi serve un parlamentare. Non vi serve neanche uno che sappia leggere e scrivere: gli amanuensi copiavano i segni, vi bastano gli amanuensi. Per me il segretario ha tutto il diritto di stabilire il metodo con cui sceglie qualcuno per ricoprire una carica: ma ci deve essere trasparenza in quel metodo».

Aveva ragione Goffredo Bettini a dire che lei era nel 2013 il più attrezzato a essere votato anche dai grillini?
«Io le avrei fatte tutte in streaming, le riunioni della giunta. Nel 2009, quando Grillo voleva partecipare alle primarie, fui l’unico a dire: è iscritto e vuol esserci? Benissimo. Perché il confronto deve essere aperto. Possibile che ancora non l’abbiano capito? Se il Pd si chiude muore. Perde forza vitale. Già hanno perso gran parte delle ideologie, dei valori, dei contenuti, penso a sanità e scuola pubblica, rifiuto della guerra, laicità nei diritti, possibilità di un ascensore sociale, quel tipo di principi che definirei l’anima di un centrosinistra. Hanno perso valori, capacità di confrontarsi, lungimiranza nella politica delle alleanze».

Come le sembra il Pd di Letta?
«Non lo conosco da vicino, perché non lo frequento. Dal 2013 a oggi vedo tutto un equilibrio, sbilanciato, su ciò che conviene, rispetto a ciò che è giusto. La sensazione che ho dall’esterno è che sia peggiorato, dall’era Bersani: là una persona come me poteva esprimere il suo pensiero, magari appena tollerato. Ora mi pare che l’omologazione sia totale. Poi è vero che, per certi versi, non c’è novità: sono stati nel tempo tutti veltroniani, franceschiniani, bersaniani, renziani. E sono sempre gli stessi. Come disse Renzi: maggioranza è dove siede Franceschini».

Stiamo ancora là?
«Esattamente».

Ha ancora un senso aprire il Pd? Lei parteciperebbe alle Agorà?
«Parteciperei a qualunque cosa possa dare un contributo alla crescita del nostro Paese, ma personalmente penso che siamo arrivati alla fase della rianimazione: siamo in terapia intensiva, col paziente settico e grave. Quando bisogna decidere se vale la pena se andare andare avanti, oppure se andare avanti significa solo prolungare l’agonia».

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Insomma il Pd è inoperabile.
«Purtroppo lo penso davvero. Però non riesco a immaginare cosa potrebbe esserci al suo posto. Per costruire una nuova sinistra ci vorrebbero almeno due anni, qualcuno disposto a girare tutta l’Italia, a raccogliere la gente. I territori, non i gruppi parlamentari. E questo sarebbe meglio delle Agorà, sarebbe una sfida vera».

Lo sforzo di queste settimane e mesi è tutto diverso: costruire un’alleanza coi Cinque stelle. Cosa ne pensa?
«Fui il primo a proporgli di entrare nella mia giunta: i nostri programmi si sovrapponevano per il 90 per cento. Nel Pd venni trattato come un eretico. Solo due anni fa Zingaretti sembrava quasi sul punto di piangere, quando disse: non dovete più dirmi che voglio fare un’alleanza coi Cinque stelle, perché inizio a prenderla come un’offesa personale. Non lo farò mai, noi siamo strutturalmente e ideologicamente diversi. Poi, dopo sei mesi...».

Si è spostato Franceschini, anche quella volta?
«Ma Franceschini è il più bravo. Ha tutta la mia ammirazione».

Fa del sarcasmo?
«No, l’ho visto all’opera: puoi non condividerlo, ma ha capacità notevoli. Quando, dopo le primarie, Bersani ci chiese: che volete fare? Io risposi “niente”, lui: “Il capogruppo alla Camera”. Come fu. Poi è chiaro: io preferisco il dibattito dove chi vince vince e chi perde perde, ma va considerato che, in politica, chi sa adattarsi vince. Su persone come me di sicuro».

Sta di fatto che l’alleanza con M5S, che prima era eresia, adesso è di gran moda.
«Eh, però i Cinque stelle nel frattempo hanno combinato di tutto: hanno rinnegato ciò che avevano detto, sono passati dallo streaming alle correnti, dalla trasparenza ai bonifici annullati, si sono scordati il doppio mandato. Insomma quell’ipotetico afflato che avrebbero potuto avere come movimento populista post-ideologico, oggi non ce l’hanno più: sono una massa informe, dove ognuno tira in una direzione, senza una linea comune. Che senso ha allearsi ora?».

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Lei e Letta siete i due traumi che Renzi ha lasciato in eredità al Pd. Ne avete mai discusso?
«È stato l’argomento dell’ultima volta in cui ci siamo parlati: io ero agli ultimi giorni in Campidoglio, lui si era già trasferito all’estero. Mi chiese di ospitare una riunione internazionale, gli diedi la Sala delle bandiere. Quel giorno, nel mio studio di sindaco, siamo rimasti un po’ a parlare: la mia caduta era imminente, la sua era avvenuta circa dieci mesi prima, la memoria era fresca, abbiamo fatto un ragionamento su quanto accaduto e stava per accadere. L’autore, l’origine, il regista, era sempre lo stesso: Renzi».

Tutti ricordano «Enrico stai sereno». Ebbe un ruolo anche il Pd?
«Ero parte della Direzione quando tutto accadde. Rimasi sbigottito, perché alcune persone che avevano ricevuto la piena, totale fiducia di Bersani prima e poi di Letta, in direzione si espressero totalmente a favore della visione di Renzi. E furono molto severi nei confronti del premier. Io me li guardavo e non capivo: qual era il motivo di così durissime critiche? Ero contrario a votare la caduta di Letta, andai da Renzi ad avvertirlo: avrei voluto prendere la parola, spiegare che non era una cosa da fare, lui mi chiese di non intervenire. Ne ho parlato, anni dopo, con Bersani: “Ti ricordi chi prese la parola e parlò contro Enrico?”. Feci i nomi: lui mi guardava. Poi disse: “Ignazio, io non c’ero”. Come no? “Ero in rianimazione, ricordi? Mandarono Delrio, visto che era medico e poteva entrare, a riferirmi ufficialmente cosa stava accadendo. Avevo un mal di testa! Ma gli dissi: non potete aspettare una settimana? Tra pochi giorni esco”. Delrio rispose che avrebbe provato a dirlo a Renzi, dopo due giorni però si procedette. Ancora non mi capacito come fu possibile prendere quella decisione, senza un motivo, e senza aspettare Bersani. Se un partito è una comunità, tu lo aspetti uno che sta in rianimazione: non sarebbe cambiato nulla, peraltro, rispetto alla decisione finale. Io capisco forse più di rianimazione che di politica, appartengo forse a un’altra epoca, ma l’avrei aspettato».

Cosa ha significato non averlo fatto?
«Quel giorno il Pd ha perso l’anima».