L’Italia fragile

Senza un’idea di Paese spendere i soldi del Pnrr non basta più

di Alessandro Coppola, Artuto Lanzani, Gloria Pessina   10 agosto 2021

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Bisogna partire dalle disuguaglianze, ricominciare dai territori per evitare altri disastri

Nonostante i suoi limiti, il Piano di ripresa e resilienza può ancora rappresentare un’opportunità di trasformazione degli spazi di vita, lavoro, welfare e dell’ambiente per chi abita i tanti e diversi luoghi del nostro Paese. La mole di risorse in campo e l’individuazione di alcune missioni strategiche con una diretta ricaduta territoriale lascerebbero ben sperare, anche se molti nodi rimangono irrisolti. È positivo l’investimento (da potenziare) sulle infrastrutture sociali - salute territoriale, scuole e sport - mentre il riavvio di una politica abitativa pubblica è ancora troppo timido per poter dare risposte alla popolazione più fragile e a rischio di esclusione, come i senza casa, gli studenti, i non autosufficienti e i disabili. E per quanto riguarda la mobilità è importante la scelta di investire nella rete ferroviaria e nella mobilità dolce, ma troppo poco viene fatto per migliorare tratte regionali esistenti, a favore dell’alta velocità. Permangono poi opere stradali, molte delle quali controverse, finanziate dalla spesa ordinaria. Condividiamo le voci critiche che si sono levate a riguardo della stessa concezione di transizione ecologica, particolarmente importante considerando che assorbe oltre il 37 per cento dei 191,5 miliardi del piano complessivo: più che una vera e propria transizione, sembra una modernizzazione, per altro troppo lenta, disegnata da attori e interessi egemoni nel settore energetico. Dubbi permangono anche sulla combinazione di spesa pubblica e riforme neoliberali, che non aggrediscono la natura profonda di molte disuguaglianze.


Al di là di queste considerazioni, nel Pnrr osserviamo la grande frammentazione settoriale e misure specifiche che rischiano di essere fortemente condizionate da lobby consolidate, anziché aprire a una varietà di interessi sociali, anche nuovi. La chiusura e la limitata trasparenza del processo di elaborazione del piano non hanno finora favorito una più ampia partecipazione della società civile, nelle sue molteplici forme. Ora che il piano entra nel vivo della sua costruzione, pensiamo che puntare sul territorio possa permettere di intervenire su entrambi questi problemi: la frammentazione settoriale e lo scarso coinvolgimento collettivo. Solo una visione dei territori italiani al futuro permetterà di rispondere ai limiti di quanto fatto fino ad ora.

CI VUOLE UNA VISIONE DEL TERRITORIO E DEI RISCHI CHE CORRE
L’assenza quasi totale di un riferimento alla varietà territoriale del nostro Paese si percepisce su diversi livelli. Nel piano non c’è la geografia articolata dell’Italia che, se considerata, da un lato costringerebbe ad adeguare a essa le diverse misure (infrastrutturali, ambientali, digitali, sociali) e, dall’altro sarebbe una risorsa straordinaria perché garantirebbe, come ha sempre fatto, plasticità e adattabilità in risposta alle crisi. Il riferimento alle aree interne, al Mezzogiorno e alle periferie metropolitane è doveroso, ma non basta. Vi sono problemi specifici dell’Italia delle medie e delle piccole città, dei distretti industriali spesso in crisi, delle grandi aree produttive in attesa di bonifica, dei sistemi costieri su cui si sono disordinatamente addensati popolazione ed edificato, del ricco ma inquinato catino padano, delle zone sismiche e di molti bacini fluviali. Tutte queste Italie vanno riconosciute, e per tutte queste Italie vanno costruite strategie integrate e pertinenti. Una visione del territorio e della sua geografia è necessaria per disegnare i luoghi del futuro e, in particolare, di come l’Italia evolverà in concomitanza con una varietà di rischi: il cambiamento climatico, le inondazioni e i terremoti. Non solo dovrebbe essere maggiore la spinta finanziaria e politica a favore della cura del territorio, ma si dovrebbe anche evitare di gettare denaro nei progetti di vecchia concezione, quelli “in pancia” alle amministrazioni, puntando invece alla promozione di nuovi piani integrati, capaci di confrontarsi con l’attuale congiuntura climatica e con le sue probabili evoluzioni.


Se si esclude la novità promettente del programma di “rinaturazione del Po”, nel Pnrr sembrano assai limitate, rispetto alle stime di Ispra, le misure più specifiche di cura del territorio con interventi integrati sui sistemi fluviali, sul sistema forestale e sull’edificato (anche con demolizioni e ricostruzioni) o con riferimento alle aree sismiche. Manca anche l’invito a ricorrere a progettualità integrate nello specifico degli insediamenti rischiosi. Proprio di fronte all’interazione di diversi rischi, ci si dovrebbe muovere in direzione di scelte risolute di delocalizzazione delle attività e di rinaturalizzazione. Più in generale, si dovrebbe fare il tagliando climatico a qualsiasi progetto, non solo guardando al suo contributo alla riduzione delle emissioni (ovvero alla cosiddetta mitigazione), ma anche alla sua capacità di rispondere alle sfide del cambiamento climatico in specifici contesti territoriali (magari alcuni progetti sarebbero sconsigliati, e altri invece consigliati sulla base di quel principio).


La scarsa attenzione all’articolazione del territorio italiano e alla sua cura ci portano ad esprimere preoccupazione, perché si rischia di replicare le passate stagioni di forte spesa pubblica non guidate da visioni e disegni territoriali, come ad esempio la fase finale della Cassa per il Mezzogiorno. Cosa resta di quella stagione? Un cumulo di opere incompiute e inutili, che hanno consumato importanti risorse ambientali e paesistiche del Mezzogiorno. Questa preoccupazione è condivisa anche da chi teme che l’incentivazione dei pannelli solari prevista dal Pnrr favorisca un ulteriore consumo di suolo fertile e ad alto potenziale ecosistemico piuttosto che essere una leva per riqualificare le aree produttive dismesse del Paese. Si teme anche che le consistenti risorse destinate agli spazi e ai servizi scolastici non si integrino in più ampi contratti di scuola con la riqualificazione degli spazi aperti residuali e stradali e con altre attrezzature nell’intorno e con azioni a sostegno della più vasta comunità educante, che può operare in concerto con le scuole. O ancora, c’è il rischio che gli schemi di incentivazione – l’ecobonus prima di tutto, che assorbe da solo circa 13 miliardi di spesa a pioggia - alimentino l’efficientamento di patrimoni abitativi posseduti da cittadini benestanti, finanziando con la spesa pubblica interventi che probabilmente avverrebbero egualmente, date le condizioni di mercato.

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GLI ENTI TERRITORIALI E LA SOCIETÀ CIVILE DEVONO ESSERE PROTAGONISTI
Questi deficit di impostazione, in particolare l’assenza di una progettualità territoriale, possono essere in parte colmati ora che si passerà al vero disegno dei tanti programmi di spesa contenuti nel Pnrr. Molte delle proposte operative formulate da un vasto gruppo di urbanisti e studiosi del territorio in “Ricomporre i divari: politiche e progetti territoriali contro le disuguaglianze e per la transizione ecologica” (edito da Il Mulino) possono essere riprese proprio da quegli enti territoriali e attori sociali che fino ad oggi sono stati, colpevolmente, lasciati ai margini del processo di elaborazione del piano. Tuttavia, se la spinta dal basso è decisiva, è necessario che il governo ponga in essere rapidamente almeno tre condizioni affinché questa possa manifestarsi. Prima di tutto, bisogna rilanciare il ruolo degli enti territoriali intermedi e non solo dei comuni - come le province, le associazioni fra comuni, le oggi debolissime aree metropolitane che hanno relazioni non solo con altri enti di governo ma anche con le organizzazioni sociali e le forme di attivismo locale. L’attivazione di questi livelli di governo dovrebbe permettere di ricomporre localmente le diverse misure in vere e proprie strategie territoriali, che coprano l’intera durata del Pnrr e che riducano il rischio di incoerenze e danni e tengano conto delle peculiarità irriducibili di ogni contesto.

Altro aspetto essenziale è che le risorse non siano spese esclusivamente attraverso bandi nazionali rivolti direttamente ai comuni.

Questo meccanismo da sempre favorisce le amministrazioni più equipaggiate, premia gli interessi più organizzati, che sono in grado di premere efficacemente sulle amministrazioni, e crea distorsioni dal punto di vista della conoscenza del territorio. È necessario invece che vengano definite aree di intervento diverse sulla base di un confronto tra lo Stato e altri soggetti. Infine, la governance del piano dovrebbe prevedere l’attivazione a più livelli di nuovi gruppi di supporto alla progettazione degli interventi, soprattutto nei territori con amministrazioni più deboli e periferiche. Questi gruppi dovrebbero essere interdisciplinari – le politiche pubbliche non si fanno solo con gli esperti di procedure, come in molti ancora sembrano credere – ed essere aperti alla partecipazione di università, attori sociali e attivisti locali. Il nuovo reclutamento pubblico, partito come noto con errori e incertezze, dovrebbe guardare a questo tipo di innovazioni, come peraltro suggerito da iniziative interessanti quali il finanziamento dei dottorati di ricerca a sostegno della pubblica amministrazione. Lo Stato non può essere solo quello che si impone con commissariamenti e poteri sostitutivi, come indicato da gran parte delle misure del decreto governance, ma deve essere anche uno Stato che accompagna e si apre verso le società e amministrazioni locali. Il Piano poteva essere migliore: più ambizioso, più riformatore e meglio informato. Invertire la rotta è ancora possibile, facendo qualcosa affinché l’attuazione sia migliore della sua concezione.


*docenti di Urbanistica del Politecnico di Milano