La road map dell’ex premier in vista del voto del prossimo inverno. Andato via Di Maio, mani libere sul governo per recuperare consensi. E avvia il pressing su Salvini e Letta per il proporzionale

Dopo il voto delle scorse amministrative, la sera del 13 giugno, il telefono del Presidente del Movimento 5 stelle Giuseppe Conte è incandescente. Lo chiamano senatori, deputati, da Luigi Gallo a Steni Di Piazza. Ha uno scambio di messaggi anche con Alessandro Di Battista. Tutti gli sussurrano la stessa cosa: «Usciamo dal governo, ci danneggia troppo». Conte prende tempo, ma con i suoi fedelissimi (tra i quali non c’è più Rocco Casalino, ma ci sono Paola Taverna e Roberto Fico) inizia a fare una riflessione sull’esito del voto. Si convince che, pur con percentuali molto basse, comunque il risultato è frutto del consenso che ha come leader riconosciuto e visibile: «A Palermo su 12 mila voti presi, 6 mila sono solo generici con la croce sul simbolo della lista perché tu hai girato i quartieri popolari, questo consenso è solo tuo», ragiona a distanza con lui Di Piazza.

 

Il Movimento 5 stelle, con i suoi Luigi Di Maio impomatati e alcuni ministri che giocano a fare i signori dell’establishment e della guerra, è la sua riflessione, non attrae più. «Occorre fare qualcosa di diverso», gli suggeriscono alcuni senatori e deputati che sono entrati un po’ nel ristrettissimo cerchio magico. E qualcosa di diverso significa un nuovo contenitore, che magari si rifaccia alle cinque stelle del Movimento e mantenga qualcosa nel simbolo, ma che sia comunque legato a Conte, alla sua immagine e alla sua capacità di raccogliere consenso. «Anche se vale solo il 10 per cento, comunque è maggiore di quello che oggi raccoglierebbe il Movimento vecchio stile e con la vecchia classe dirigente che ha detto tutto e il contrario di tutto», gli dicono i senatori. La stessa sera del 13 giugno queste voci arrivano all’orecchio dei governisti, su tutti Di Maio.

 

Da qui l’escalation, con una mossa anticipata in extremis per evitare di subire le azioni di Conte: la creazione dei gruppi autonomi di Di Maio e di una truppa di deputati e senatori, in gran parte al secondo mandato e che rischiano di non essere ricandidati. Il tutto nel giorno dell’intervento in aula di Draghi sulla guerra e della risoluzione di maggioranza che rischia di spaccare formalmente la coalizione che sostiene il governo. Perché il casus belli, per rimanere in tema, per Conte doveva essere proprio il voto sulla guerra in Ucraina con la richiesta di riferire subito in Parlamento sulle armi e con tanto di voto per eventuali nuovi invii di mezzi di assalto. Di Maio intuisce la mossa e anticipa la rottura, a quel punto Conte evita strappi immediati e sulla risoluzione si accontenta di un testo annacquato.

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Ma il piano di Conte va avanti e ha tappe ben precise. Andati via i governisti dal Movimento 5 stelle non ha nemmeno bisogno di utilizzare alcune accortezze a questo punto. Da qui a settembre inizierà un picconamento costante del governo Draghi sulla guerra, sul superbonus, sugli aiuti a famiglie e imprese per il caro vita e il caro bollette. Poi scatterà la fase due, l’appoggio esterno. Un modo, questo, per tenersi le mani libere per la campagna elettorale e per riavvicinarsi all’ala dura e pura, quella di Alessandro Di Battista ma anche del movimentista per eccellenza, il fondatore e investitore principe di tutto questo: Beppe Grillo che adesso vuole riprendersi i soldi, e sono stati tanti, che ha messo per lanciare questo partito quando era attorniato solo da una banda di ragazzini.

 

Di certo c’è che, andato via Di Maio con i governisti, il gioco è molto più semplice. Il dialogo con il Pd resterà in piedi, perché Conte sa bene che Di Maio rischia di fare la fine di Angelino Alfano, con grandi operazioni di palazzo che non esistono nel Paese e, quindi, nelle urne: il ministro degli Esteri dialoga con i volti di un centro che da vent’anni nessuno riesce a ricostruire, con i vari Giuseppe Sala, Luigi Brugnaro, perfino con Maurizio Lupi e Saverio Romano di Noi con l’Italia e con l’eterno Clemente Mastella.

 

A proposito di Di Maio: l’accoglienza nel campo centrista non è stata delle migliori, considerano che da queste parti giocano anche Matteo Renzi e Carlo Calenda e che entrambi hanno iniziato subito a lanciare messaggi di guerra al ministro degli Esteri: «Una alleanza con lui? Mi pare surreale, lunare», ha detto a caldo l’ex segretario del Pd. «Di Maio? È stato un disastroso ministro dello Sviluppo economico. Voleva smantellare il Tap, è riuscito a far saltare l'Ilva, non ha comprato le navi di rigassificazione che erano previste e che oggi ci renderebbero indipendenti, ha fatto saltare il gasdotto da Israele. Contano i fatti, non le chiacchiere», ha ribadito Calenda, dando così il benvenuto all’ex 5 stelle nel grande campo dei centristi sostenitori di Draghi senza se e senza ma. Non proprio una accoglienza calorosa. Preludio, comunque, a quello che Di Maio avrà di fronte nei prossimi mesi, tanto che molti grillini sussurrano ai fuoriusciti che il ministro farà proprio come Alfano: prima del voto per le Politiche li mollerà al loro destino e lui andrà a ricoprire qualche incarico in una grande azienda o in una multinazionale con stipendio a cinque zeri.

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Enrico Letta per costruire qualsiasi campo largo deve quindi continuare a dialogare con Conte. L’ex premier lo sa, per questo ne approfitterà per picconare e tornare a girare per il Paese lanciando i messaggi che in parte aveva anticipato a L’Espresso: dopo il reddito di cittadinanza adesso è la volta del salario minimo, dei bonus fiscali allargati e del taglio immediato delle cartelle esattoriali. Insomma, più soldi per tutti, pacifismo populista 2.0 e difesa dell’ambiente.

 

«Seguiamo il nuovo corso di Conte», dice il deputato Gallo, come dire: adesso nasce il partito del Presidente a cinque stelle. Poi alle urne si vedrà, anche se Conte in questo suo piano ha anche un’altra mossa: insistere il più possibile con Letta e con Matteo Salvini per fare un blitz in Parlamento e cambiare la legge elettorale per tornare al proporzionale puro. Letta, complice anche il pressing interno dell’ala di Giuseppe Provenzano, si è quasi convinto che questa possa essere una soluzione per evitare che a Palazzo Chigi il prossimo febbraio arrivi Giorgia Meloni. Per lo stesso identico motivo anche Salvini starebbe riflettendo su questa ipotesi. Un ulteriore incrocio dei loro destini.