Studenti e lavoratori fuori sede non possono esprimere il loro diritto perché il nostro è rimasto uno dei pochi Paesi a non prevedere modalità per votare quando si è lontano da casa, mentre gli sconti sui viaggi non risolvono il problema. E poi ci sono i figli dei migranti ai quali è negata la cittadinanza

Come accade ad ogni tornata elettorale, alcune categorie di cittadini si ritroveranno tagliate fuori dalle urne. Non per volontà, ma a causa di una legislazione considerata dagli stessi esclusi come «anacronistica e discriminatoria». Si tratta degli italiani senza cittadinanza, degli studenti e dei lavoratori fuori sede: potenziali elettori che per ragioni diverse, di volta in volta, si ritrovano impossibilitati ad esercitare il diritto di voto. «Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età», recita l’articolo 48 della Costituzione. «Tutti i cittadini», appunto. Un principio di uguaglianza declinato in chiave discriminatoria dalla politica, incapace di mettere mano alle vecchie normative che regolano l’accesso al voto, per chi vive lontano dal seggio o per chi non può ottenere la cittadinanza italiana, requisito fondamentale per godere appieno dei diritti politici. Votare e essere votati.

 

«Quest’anno mi hanno anche chiesto di candidarmi, ma essendo senza cittadinanza italiana ho dovuto rispedire la proposta al mittente». Insaf Dimassi, 25 anni, fa politica attivamente ma non può votare, né partecipare alla competizione elettorale. Si è trasferita in Italia dalla Tunisia quando aveva appena nove mesi. Qui ha frequentato tutti i cicli scolastici: asilo, elementari, medie, superiori e università; parla italiano con una leggera inflessione modenese. A causa della legge che regola l’ottenimento della cittadinanza non è ancora riuscita a diventare italiana a tutti gli effetti.

 

«Quando mio padre ha raggiunto i requisiti di reddito io avevo compiuto 18 anni da soli venti giorni, ed essendo già maggiorenne sono stata tagliata fuori». Poco dopo, i genitori divorziano e Dimassi finisce nel nucleo della madre, con un reddito troppo basso per avanzare di nuovo la richiesta di cittadinanza.

 

Quello di avere una certa disponibilità economica, infatti, è uno dei criteri più escludenti previsti dalla legge attuale, la 91 del 1992. Per chi non nasce da genitori italiani, sono due le vie principali per ottenere la cittadinanza: aspettare il compimento di diciotto anni (solo se si è nati in Italia) oppure raggiungere i 10 anni di residenza con una certa soglia di reddito, variabile in base alla composizione del nucleo. Un’asticella troppo spesso difficile da raggiungere. «Ho dovuto iniziare a lavorare per pagarmi gli studi», racconta. «Tutti lavoretti sporadici che però non mi hanno consentito di ottenere i requisiti di reddito». 

 

Da attivista le sarebbe piaciuto portare le battaglie sull’integrazione fino in Parlamento. «Anche perché oltre ad una totale avversione della destra, non ho mai trovato un vero appoggio neanche da parte di una certa sinistra», ammette. Il riferimento è ai numerosi tentativi (tutti andati a vuoto) di approvare una nuova legge che allargasse le maglie della cittadinanza a coloro che, nei fatti, sono italiani a tutti gli effetti. Oltre a quello andato in scena sul finire della legislatura precedente, l’ultimo risale a qualche settimana fa, prima che la caduta dal governo di Mario Draghi provocasse lo stop al percorso delle leggi di iniziativa parlamentare. Tra queste c’era anche il cosiddetto Ius scholae, una proposta sostenuta da Pd e M5s e che avrebbe consentito l’ottenimento della cittadinanza ai figli dei migranti che avessero portato a termine un ciclo scolastico di almeno 5 anni. La riforma era sostenuta anche da una parte (molto ristretta) del centrodestra, proprio perché considerata meno incisiva e più tollerabile rispetto allo Ius soli, il quale, sul modello statunitense, prevede la concessione della cittadinanza a tutti i nati sul territorio italiano.

Secondo il Rapporto annuale dell’Istat, i minorenni nati in Italia da genitori stranieri sono oltre un milione. Solo il 22,7 per cento, però, è riuscito ad acquisire la cittadinanza. I potenziali beneficiari dello Ius scholae, invece, sempre secondo l’istituto di statistica, sarebbero 280 mila. Ragazzi e ragazze che finiscono per ritrovarsi impigliati in una giungla burocratica e privati del diritto di voto una volta compiuta la maggiore età. «La legge prevederebbe dai due ai tre anni di attesa, ma nella pratica si può arrivare anche a sei», spiega Ihsane Ait yahia. Arrivata dal Marocco all’età di sei anni, assiste gli avvocati nella gestione delle pratiche legate all’immigrazione. I motivi per cui non ha potuto ottenere la cittadinanza sono gli stessi: mancanza di reddito una volta compiuti i 18 anni. Ait yahia ha avanzato la richiesta nel 2014 per poi ottenere il rigetto definitivo nel 2020. «La mancata possibilità di votare e di candidarsi sono le principali limitazioni che incontra una persona senza cittadinanza. A me piacerebbe molto partecipare alla vita politica in maniera attiva, ma purtroppo non posso». Anche se lo Ius scholae fosse stato approvato, sia Insaf Dimassi che che Ihsane Ait yahia non avrebbero comunque potuto partecipare al voto. «La proposta in discussione non prevedeva la retroattività», spiega Ait yahia. «Esclude dalla possibilità di fare richiesta tutti coloro che hanno già portato a termine un ciclo di studi».

 

La data del 25 settembre coincide con un appuntamento altrettanto importante per un’altra categoria di elettori. Nel mese di settembre migliaia di fuori sede faranno ritorno presso la città in cui ha sede la propria università per affrontare la sessione d’esame straordinaria. Una condizione, quest’ultima, che spesso si traduce nell’impossibilità di esercitare il diritto di voto. Tempi stretti, costi di viaggio e lunghe distanze rendono complicato il ritorno verso casa. Secondo l’Istat, la platea dei fuori sede - tra studenti e lavoratori - conta circa 5 milioni di elettori, il 10 per cento degli aventi diritto. Nella maggior parte dei casi si tratta di giovani tra i 18 e 35 anni, principalmente residenti al Sud. Una fetta di potenziali elettori che di volta in volta contribuisce ad allargare la crescente percentuale degli astensionisti.

 

La legge italiana non prevede metodi alternativi al voto tradizionale. O meglio: li prevede solo in determinati casi, come per i cittadini che risiedono stabilmente all’estero o per coloro che si trovano temporaneamente fuori dall’Italia per motivi di lavoro, salute o studio. Queste categorie possono esprimere la propria preferenza per corrispondenza. Il risultato, però, è una situazione al limite del paradosso: diventa più facile votare per un cittadino che vive dall’altra parte del mondo rispetto a chi si trova a poche ore dal seggio. L’Italia è rimasto l’unico Paese europeo, insieme a Malta e Cipro, a non consentire una qualche forma di voto a distanza. Il governo ha cercato di ovviare al problema offrendo sconti sul costo dei mezzi di trasporto. Una soluzione che non ha portato a grandi risultati. I prezzi rimangono comunque alti e spesso le distanze da percorrere sconsigliano un viaggio di andata e ritorno in pochi giorni. Di più: negli ultimi dieci anni lo Stato ha speso più di 60 milioni di euro, con un ritorno - in termini di partecipazione alle urne - a dir poco esiguo. Un esempio: nel 2018 la “politica degli sconti” ha prodotto appena 330 mila viaggi, tra elezioni nazionali, regionali e comunali.

 

Un numero decisamente basso rispetto alla platea dei fuori sede stimati dalle statistiche. «Si tratta di un problema che riguarda soprattutto chi proviene dalle regioni del Mezzogiorno», dice Stefano La Barbera, presidente del comitato “Io voto fuori sede”: «In più la liquidità che ormai caratterizza il mercato del lavoro porta a continui spostamenti che non consentono al lavoratore di trasferire la propria residenza in maniera stabile».

 

Insieme all’associazione no-profit “The good lobby”, da tempo, il comitato presieduto da La Barbera ha avviato una raccolta firme per chiedere al Parlamento di intervenire. L’appello è stato firmato da più di 20 mila persone. Con l’avvicinarsi delle elezioni è partita un’altra sottoscrizione, questa volta promossa da +Europa. L’obiettivo è quello di chiedere un intervento rapido alla ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese. Del resto, il tempo per una legge ordinaria è ormai scaduto, ma è altrettanto difficile che il Viminale riesca a sciogliere tutti i nodi tecnici entro il 25 settembre. «Come spesso accade, di questo argomento si torna a parlare a pochi giorni dal voto invece di affrontare la questione con le dovute tempistiche», commenta Martina Turola di “The good lobby”. Alla Camera, durante la legislatura, sono state depositate ben cinque proposte di legge, nessuna delle quali è riuscita a fare un solo passo verso l’approvazione. Giuseppe Brescia, relatore dei provvedimenti e primo firmatario di uno dei ddl depositati, è scettico: «Al Viminale c’è una drammatica allergia all’innovazione». Il riferimento è alla decisione di rinviare la sperimentazione del voto elettronico per i fuori sede. Una misura che avrebbe potuto avviare la digitalizzazione del processo elettorale.