Governo, sottogoverno, enti e burocrati: chi è sul carro e chi ci sale. Ecco come sarà il Paese di Fratelli d’Italia. Girano già le liste. E in primavera ci sono altre 500 poltrone in ballo

Il suo principale pregio, a questo punto, è di essere finita. La più scontata, statica, vacua, povera, campagna elettorale che la storia repubblicana abbia celebrato lascia adesso il posto a una questione che, visto l’andazzo trionfale, è avanzata a passo di leone nel corso delle settimane. Una questione che occupa i pensieri della leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni e, con le dovute proporzioni, del suo cerchio magico o «bunker» (in Fdi c’è chi lo chiama così) e occupa i pensieri della leader assai più di quanto non facciano gli atti della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, le polemiche per i contestatori in piazza, e forse persino la spericolata difesa d’ufficio del premier ungherese Viktor Orbán (eseguita forse non sapendo la differenza tra una democrazia liberale e una illiberale o, peggio, sapendola benissimo). Una questione che suona così: adesso il potere come lo distribuisco? «Ci sono centinaia e centinaia di poltrone da occupare», sussurra tra il preoccupato e il goloso uno dei consiglieri occulti della regina o meglio del re (Meloni si fa chiamare «il presidente di Fdi», vorrebbe fare «il premier» non ama la declinazione al femminile, le parrebbe di essere discriminata). Si stendono dunque liste, a cento nomi si arriva in un attimo. Di governo, sottogoverno, per la burocrazia, per le partecipate: uno spoils system di tutto rispetto.

 

Anche perché, oltre a tutte le nomine politiche, per la primavera 2023 è previsto un pozzo di nomine generosissimo per la scadenza dei vertici di Eni, Enel, Leonardo, Poste, Terna, Amco, Consip, Consap, Sogin, Enav, giusto a citare i maggiori: oltre cinquecento poltrone da assegnare tramite Tesoro e Cdp, qualcosa di talmente ampio da aver fatto pensare ai maligni, prima dell’estate, che Mario Draghi o chi per lui sarebbe stato disposto ad allungare artatamente di qualche mese il governo al solo fine di poterle decidere. Ma tant’è: per il futuro, giusto ad anticipare qualche nome, appare già ben posizionato l’ad Claudio Descalzi, per una riconferma all’Eni, l’ad di Terna Stefano Donnarumma, già visto a Milano alla Conferenza programmatica di FdI in primavera, mentre gira anche il nome di Paolo Gallo di Italgas e dell’ex ceo di Fincantieri Giuseppe Bono. Andrea Abodi, ad del Credito sportivo, il nome che Meloni aveva fatto per il Comune di Roma, potrebbe andare a Sport e Salute spa o, secondo altri, alla presidenza del Coni. E si potrebbe proseguire, stile Pagine gialle, per chi se le ricorda.

 

La destra s’avanza, come mai prima nella storia d’Italia. E il mazzo è in mano a Fratelli d’Italia, mai accaduto sin qui. Bisognerà vedere gli effetti di questa rivoluzione di settembre, di questa Marcia su Chigi. Già se ne possono indovinare i volti, proviamo a fare dei nomi. Tanti da un giorno all’altro si ritroveranno parecchi amici di cui non sapevano niente, come accadde a Gianni Alemanno quando conquistò il Campidoglio, come alla fine accade sempre, ovunque piombi il potere: compagni di classe e di scuola, compagni di scout e di nuoto, vicini di casa, amici dei genitori, parenti fino al terzo grado. Attestati di stima e amicizia che cadranno a palate sugli amministratori di oggi: Marco Marsilio in Abruzzo, Francesco Acquaroli governatore delle Marche devastate dal fango, sul sindaco dell’Aquila Pierluigi Biondi.

 

Le banche d’affari stanno già facendo i conti con il nuovo governo, e puntano il dito sulle tante promesse elettorali (taglio delle tasse) che potrebbero far esplodere i conti pubblici, mentre il Pnrr potrebbe essere rimesso in discussione, con le riforme che rischiano di finire a gambe all’aria. Insomma Meloni dovrà chiarire abbastanza presto in che senso, come in piazza Duomo a Milano, «la pacchia è finita», posto che come ha fatto notare in un tweet, fra gli altri, Carlo Cottarelli, «nel 2020-21 abbiamo ricevuto 350 mld dalla Bce a altri arrivano, 20 mld dallo Sure, 200 mld dal recovery plan (in parte già incassati) e ci siamo permessi di dire no al Mes». In effetti che sia finita la pacchia è verosimile, bisognerà vedere chi gestirà l’ingrata fase. Personaggio chiave è dunque il ministro dell’Economia, casella per la quale Meloni sin dall’inizio punta su Fabio Panetta. Banchiere centrale, in Bankitalia dal 1985 fino a diventare direttore generale, carriera con Ciampi, Fazio, Draghi e Visco, politicamente vicino alla destra, abituato a masticare di politica perché suo padre è stato capo di gabinetto di un ministro di Spadolini, sarebbe la persona giusta. Ci sarebbe stato anche un colloquio diretto con Meloni nel mese d’agosto. Piccolo problema: Panetta aspira a diventare governatore della Banca d’Italia e, come osserva un’alta fonte, «se non fa niente, se resta fermo dove è, lo diventa». È chiaro quindi che servirà, nel caso, un qualche ulteriore alto pressing per smuoverlo: un discorso analogo vale anche per Roberto Cingolani, il ministro alla transizione ecologica che Meloni farebbe di tutto per tenersi, ma che ancora deve essere convinto a rimandare il ritorno al suo mondo, alla sua carriera. Negli ultimi giorni per le caselle del Mef sono spuntate altre due opzioni: da una parte lo spacchettamento, come ai tempi d’oro di Silvio Berlusconi. Dall’altra il nome di Domenico Siniscalco, che nei primi anni Duemila si diede la staffetta con Giulio Tremonti. Ecco: se Siniscalco è in ascesa, Tremonti no. Nota è la sua ambizione di tornare a sedere nella poltrona che lo vide superministro: altrettanto improbabile che si realizzi, a meno di non voler fare la mossa più antidraghiana che esista, posto fra l’altro che super-Giulio spende i tre quarti delle sue dichiarazioni in punzecchiamenti all’ex presidente della Bce. Di qui la sua candidatura con Fratelli d’Italia: una specie di premio di consolazione proprio per poter sventolare il nome di Tremonti senza poi trovarselo in casa. Un paradossale destino tra la vecchia gloria e la bella statuina che coinvolge anche un altro big delle liste: Marcello Pera. L’ex presidente del Senato, data l’età e le condizioni generali, sarebbe visto meglio come presidente di una qualche bicamerale, se mai si farà.

 

Per le caselle dell’esecutivo si assiste infatti a questo particolare fenomeno: scarsa disponibilità a mettersi in gioco, viste la difficile prospettiva e la credibilità non esattamente granitica di cui godono Meloni e il suo apparato. Insomma anche per chi non concorda con i timori alla Bernard-Henry Lévy e per chi non teme la calata dei lanzichenecchi neofascisti sul Palazzo, lanciarsi nell’impresa e rischiare, magari rinunciando a ottime posizioni o offerte di lavoro, è un’opzione non esente da dubbi. Vale non solo per Panetta o Cingolani. Persino uno come Guido Crosetto, per dire. Cofondatore di Fratelli d’Italia, consigliere ascoltatissimo della principessa (del principe?), indicato per varie caselle di peso tipo flipper (ministro? sottosegretario alla Presidenza?) dovrà tuttavia lasciare la presidenza dell’Aiad, incarico di potere, di prestigio e di remunerazione che ha già preferito a quello in Parlamento. Farlo gli costa.

 

In compenso, ci sono frotte di «pronti», come da slogan elettorale, magari dopo una lunga attesa. Ci sarà sicuramente un posto per Giovanbattista Fazzolari, l’uomo del programma, il consigliere per le questioni spinose, il fan di soluzioni non lisce come quella del blocco navale. Ci sarà un posto da ministro per Raffaele Fitto, l’uomo che ha aperto le porte dei Conservatori europei e che può con questa occasione concludere il suo dorato esilio di Bruxelles, dopo averci provato invano nel 2019 con la corsa per la Regione Puglia. Ci sarà per Fabio Rampelli, primo inventore e promotore di Meloni, anche se probabilmente non la presidenza della Regione Lazio che sarebbe stata tra i desiderata del vicepresidente della Camera, appena un gradino sotto quella di sindaco (già negatagli un anno fa). Del resto questa tendenza a non accontentare più di tanto compagni, fedelissimi e luogotenenti appare abbastanza spiccata in Meloni: ci sarà infatti sicuramente un posto per Francesco Lollobrigida, detto il Cognato, ma a quanto pare nulla di ministeriabile: egli continuerà pare a fare il capogruppo alla Camera. Visto l’andazzo c’è bisogno di lui più di qua che di là e, visto l’andazzo, potrebbe essere meglio così.

 

Per il governo si preferisce pescare appena fuori: così l’ex ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata si gioca il ritorno alla Farnesina contro l’ambasciatore Stefano Pontecorvo, già Alto rappresentante civile Nato in Afghanistan. Per l’Interno, invano desiderato da Matteo Salvini, ci sono l’ex vicecapo della Polizia Giuseppe Pecoraro, già prefetto di Roma (nominato da Maroni), e l’attuale prefetto di Roma, Matteo Piantedosi, che fu capo di gabinetto e di fatto facente funzioni del ministro quando al Viminale c’era il leghista. Una poltrona importante dovrebbe averla Adolfo Urso, presidente del Copasir, fin troppo accurato in questi giorni nella sua funzione di rassicurazione oltreoceano circa l’affidabilità dei fratelli d’Italia. Non è ancora chiaro in che mani finirà la Cultura: dopo lo scivolone su Peppa Pig è però assai più probabile che Federico Mollicone finisca a stampare francobolli che non al posto di Dario Franceschini. Ci sarebbe Luca Ricolfi, editorialista di Repubblica, il quale a sua volta nel partecipare in collegamento alla Conferenza programmatica di Fratelli d’Italia si era però di fatto candidato all’Istruzione. Poi, con questi intellettuali, vai a sapere.

 

Piacerebbe assai una collocazione per Giovanni Orsina, politologo e docente Luiss, che viene consultato da Meloni per i rinforzi all’identità conservatrice, una per Luigi Di Gregorio, docente di Scienze politiche all’Università della Tuscia, che viene ascoltato con discrezione per le questioni di campaign management e comunicazione. Cerca un ruolo Riccardo Pugnalin, già socialista e forzista, ex Sky italia, poi Vodafone, che ora dà consigli sulle nomine. Anche Francesco Filini, il coordinatore Ufficio studi FdI, dovrebbe accedere a un ruolo meno invisibile.

 

Gli intellò della destra del resto non sono tanti. Resta ascoltatissimo Angelo Mellone, che si dice sia pure il ghost writer di Io sono Giorgia. Non manca mai Alessandro Giuli, editorialista di Libero e ormai anche volto tv. Ci saranno sicuramente i volti che aleggiano sulla Rai da tempo immemore: il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano, quello di Rainews24 Paolo Petrecca. E Giampaolo Rossi, l’ideologo del manifesto dei conservatori, che già si sente talmente in parte da raccontare come sarà la Rai di destra guidata da lui («faremo gli stati generali della tv pubblica») e da offrire consigli sui prossimi palinsesti via comoda intervista sul Foglio: «In questi giorni sto guardando una fiction spagnola molto divertente e coraggiosa. È ambientata durante la guerra civile, ma franchisti e repubblicani si alleano per combattere contro una invasione di zombie», racconta. Bellissima idea, davvero: ancora non è cominciato niente e già sembra di stare in un film di Nanni Moretti.