Dalla Gran Bretagna al Giappone, sempre più Paesi testano la settimana cortissima. E anche in Italia ci sono alcuni esempi. A giovarne è la salute dei dipendenti e la produttività. Ma non mancano le critiche e i rischi

Miwa Sado aveva 31 anni, faceva la giornalista ed è stata uccisa dal lavoro. Anzi, dal troppo lavoro. È morta un giorno di quasi dieci anni fa, con il cellulare ancora stretto in mano, dopo aver accumulato 159 ore di straordinari in un mese. La sua storia ha spinto il Giappone a fare i conti con un male così diffuso da avere un nome — karoshi, morte per eccesso di lavoro — e da uccidere, secondo gli attivisti del Consiglio nazionale per la difesa delle vittime del karoshi, diecimila persone all’anno. Nel 2021 il governo di Tokyo ha deciso di affrontare il problema con un nuovo strumento: la settimana lavorativa di quattro giorni, inserita tra le linee guida del Piano economico annuale. Una misura che vorrebbe anche lasciare più tempo ai lavoratori per l’aggiornamento professionale, permettere alle coppie di fare più figli e ringiovanire così una società sempre più vecchia.

 

Il Giappone non è stato né il primo né il solo Paese a proporre la settimana corta. Il caso più conosciuto è quello dell’Islanda, che tra il 2015 e il 2019 ha coinvolto 2.500 persone in esperimenti su diversi tagli di orario in 66 luoghi di lavoro. Secondo la società di ricerca Autonomy e l’Associazione islandese per la sostenibilità e la democrazia, che hanno analizzato i risultati, è stato «un successo straordinario»: mentre la produttività è rimasta costante o è aumentata, i dipendenti hanno accusato meno stress.

 

Più di recente, il Belgio ha proposto di permettere la scelta tra quattro o cinque giorni, a parità di stipendio, all’interno di una riforma che sancisce anche il diritto di spegnere i dispositivi elettronici e di ignorare le comunicazioni legate al lavoro fuori orario. La Scozia, invece, ha stanziato 10 milioni di sterline per un programma sperimentale. La Spagna ha approvato un progetto pilota, il Portogallo lo farà partire nel 2023.

 

In Italia, per adesso, i test sono limitati alle iniziative di alcune aziende. Intesa Sanpaolo ha deciso di proporre ai dipendenti, oltre a 120 giorni di smart working all’anno, una settimana di quattro giorni da nove ore, a parità di retribuzione. «Un nuovo modello organizzativo che va incontro alle esigenze di conciliare gli equilibri di vita professionale e lavorativa e dimostra attenzione al benessere del personale», secondo la banca. Intanto Magister Group passerà da 40 a 32 ore nelle sue società Ali e Repas, Lavazza si è limitata ai venerdì brevi tra maggio e settembre, Tim a chiudere gli uffici il venerdì aumentando le giornate di lavoro da remoto.

 

L’ultimo grande esperimento è in corso in Gran Bretagna. I ricercatori di Cambridge, di Oxford e del Boston College valuteranno l’impatto della settimana corta sulla produttività e sul benessere dei dipendenti di 70 aziende in diversi settori. I risultati saranno pubblicati a febbraio. Il Financial Times, nel frattempo, ha intervistato quattro imprenditori che hanno aderito e tre di loro hanno dichiarato di volere mantenere la settimana di quattro giorni anche in futuro. «Dopo la pandemia, le persone sono esauste», ha raccontato al giornale britannico Shaun Rutland, amministratore delegato dell’azienda di videogiochi Hutch: «In questo periodo abbiamo perso un bel po’ di persone». L’orario ridotto è diventato, quindi, un modo per attrarre e trattenere personale.

 

Tra i sostenitori della settimana breve ci sono gli ambientalisti. Un giorno di lavoro in meno significa un giorno in meno in cui i dipendenti devono guidare fino al lavoro e in cui gli uffici devono essere riscaldati. Le organizzazioni britanniche Platform London e 4 Day Week Campaign hanno calcolato che accorciare la settimana lavorativa equivarrebbe a eliminare dalle strade 27 milioni di auto. E se è vero, come ha rilevato l’Institute for Fiscal Studies londinese, che la disparità salariale tra uomini e donne aumenta dopo la nascita del primo figlio, la settimana corta può essere una soluzione: un giorno in meno in ufficio è un giorno in più che un genitore può trascorrere con i figli, con una miglior organizzazione familiare e senza dover rinunciare alla carriera o accumulare uno svantaggio rispetto ai colleghi dell’altro sesso.

 

C’è anche la questione salute che non riguarda solo il Giappone. Secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità, 745 mila persone sono morte nel solo 2016 per ictus e malattie cardiache riconducibili a un carico eccessivo di lavoro. Le troppe ore in fabbrica o in ufficio aumentano poi la probabilità di errori, incidenti e malattie: causano, dunque, costi anche per il datore di lavoro. Lo hanno dimostrato ricerche su diversi settori: quelle di Stanford sugli operai dell’industria bellica durante la Prima guerra mondiale e sui programmatori di software, oppure quella dell’Università giapponese di Waseda su uno studio di architetti. Anche un dato Ocse, d’altra parte, prova che lavorare di più non rende sempre un’economia più forte: gli italiani lavorano 1.669 ore all’anno, contro le 1.349 dei tedeschi.

 

Molti economisti, però, restano scettici. Quando la prima ministra finlandese, Sanna Marin, ha parlato di settimana di 24 ore, Carlo Cottarelli ha scritto su Twitter: «La premier finlandese propone di lavorare 24 ore a parità di stipendio, perché stare a casa aumenta la produttività. Mah! Di solito la produttività dipende da tecnologia, investimenti...». Altri sottolineano che stare al lavoro non significa solo produrre.

 

L’obbligo di aumentare la propria efficienza, per concentrare in quattro giorni il lavoro di cinque, renderebbe più difficile socializzare, condividere le competenze e costruire una cultura aziendale. Brendan Burchell, professore di Cambridge che dovrà valutare gli esiti dell’esperimento britannico, ammette che «una delle cose più dannose per la salute mentale del personale di un’azienda è la costante pressione di dover lavorare con scadenze serrate e ad alta velocità». Lo hanno provato sulla propria pelle i dipendenti di Digital Enabler, una società tedesca di siti per e-commerce che ha sperimentato turni di cinque ore. Per aiutarli a concentrarsi, i dirigenti hanno tentato di separarli dai telefoni e dai social durante il lavoro, ma non potere contattare amici e parenti per tutta la mattina si è rivelato un peso eccessivo.

 

Eppure, l’idea che non siano necessarie 40 ore di lavoro settimanali è tutt’altro che recente. Nel 1930 John Maynard Keynes prevedeva che ai suoi nipoti ne sarebbero bastate 15. Tre anni dopo Giovanni Agnelli, in una lettera a Luigi Einaudi, indicava «l’incapacità dell’ordinamento del lavoro» di trasformarsi alla stessa velocità «dell’ordinamento tecnico» come causa di disoccupazione. Nel 1935 Bertrand Russell, nel suo “Elogio dell’ozio”, affermava che, «con un minimo di organizzazione», quattro ore al giorno sarebbero state sufficienti a produrre abbastanza per tutti. Nel 1965 una commissione del Senato americano stimava che entro il 2000, grazie al progresso tecnologico, gli statunitensi avrebbero lavorato 14 ore a settimana.

 

Dopo la conquista del sabato libero, però, in gran parte dell’Occidente non si è quasi più discusso di riduzioni di orario. «Per 30 anni l’idea dominante è stata quella della produttività a tutti i costi», ha spiegato Simone Fana, autore del saggio “Tempo rubato”. Il giornalista Davide De Luca ha scritto che «per una finta partita Iva o un lavoratore di una moderna startup, in cui il culto dell’impresa stabilisce che chi lascia la scrivania prima delle 20 è un peso di cui l’azienda deve liberarsi, la riduzione degli orari non sembra più un tema vincente». Dopo la pandemia, la sensibilità pare essere cambiata. La sintesi migliore, forse, la fornisce ancora il professor Burchell di Cambridge: «Spesso le persone parlano della settimana di cinque giorni come se fosse indicata nel libro della Genesi. Sono molto lontane dalla verità. Alcune delle argomentazioni contro la settimana di quattro giorni si dimostreranno infondate. Se si vuole andare in quella direzione, le persone possono farcela».