Sorpresa del nuovo anno. Si urlava al pericolo fascista, si va verso la deriva democristianoide. Si paventava il decisionismo, si naviga nell'indecisionismo. Invece dell'estremismo, è il cerchiobottismo che impera. Si temeva una nuova marcia su Roma, siamo invece al governo della retromarcia: dal decreto sui Rave alle accise sulla benzina, passando per pensioni, Pos e tentazioni di norme per l’«estinzione dei reati fiscali», insomma condoni. Perfino il famoso spoil system si sta rivelando, per citare Guido Crosetto, un «machete» sì, ma avvolgente: per un dirigente sostituito ce ne è uno che invece viene confermato, e anche questa è una impronta. Forse aveva ragione Giorgia Meloni quando in campagna elettorale ripeteva che nulla ci sarebbe stato da temere circa il suo avvento al potere: nulla o, per meglio dire, da temere c’era semmai altro.
Tra una settimana il governo compie i suoi cento giorni - ha giurato il 22 ottobre 2022 - la presidente del Consiglio vede Papa Francesco e gli regala uno dei suoi angioletti, tesse alleanze europee con il presidente del Ppe Manfred Weber alla faccia del vicepremier Antonio Tajani (e di Berlusconi), finge di farsi piacere la presidente della Commissione Ue Ursula Von der Leyen (che ricambia) e cerca di trovare una quadra per rimodulare un Pnrr che così come è non è applicabile - lo sa benissimo il ministro titolare del mastodonte, Raffaele Fitto.
Ma bisogna tornare a prima del voto, al tempo in cui Fratelli d’Italia era all’opposizione, per ascoltare una Giorgia Meloni che fa proclami. Si riprenda l’intervento nodale del 25 febbraio, quello dell’appoggio alla linea Draghi sulla guerra, quando diceva che la capacità di comunicazione del governo era pari a quella che poteva esserci «nella grotta di Bin Laden» e si conquistava la credibilità necessaria a governare scandendo parole chiare su Russia e Ucraina: «È tempo di una risposta compatta a una aggressione militare che non possiamo accettare». Oppure, il 5 marzo 2022, quando proprio sui prezzi della benzina twittava: «Costi diventati insostenibili per i cittadini: il governo riduca subito accise e Iva e colpisca chi specula sul caro benzina». Riduca subito, diceva: il governo di prima l’ha realizzato, lei no.
In questi cento giorni infatti la potente voce di Meloni si è fatta sussurro, sibilo, nenia. È scesa di tono, come alla conferenza stampa di fine anno. Stremata, e contenuta. Niente più proclami. La premier ha diradato le conferenze stampa e intensificato i cosiddetti video del taccuino, dove racconta sui social quel che vuole, senza il fastidio delle domande. E le zampate di una volta si son fatte carezzevoli considerazioni, ammissioni di impotenza, quando non unghie sui vetri.
Esempio supremo di unghia sono le parole con cui Giovanbattista Fazzolari, sottosegretario alla Presidenza e braccio destro, ha confermato a inizio settimana la bontà dell’eliminazione dello sconto sulla benzina introdotto da Draghi. Negando addirittura che si trattasse di una misura impopolare. Al contrario: «Una mossa direi popolare: quello sconto costava 10 miliardi e andava a vantaggio essenzialmente dei ceti più abbienti», ha detto a Libero. Parole già pronte per essere confezionate in manifesti e card da un’opposizione appena meno depressa di questa, per una misura che va peraltro anche contro un pezzo dell'elettorato della destra.
Meloni che urlava contro le accise alte, una volta al potere, ha confermato le accise alte: niente misure per fermare l’aumento dei prezzi, al massimo una specie di gogna per i benzinai. «È il populismo che mangia se stesso», ha scritto Francesco Bei su Repubblica. È il paradosso della promessa che non si può mantenere, della realtà che si vendica mentre sulla testa di Meloni si agita lo spettro dei gilet gialli, che protestavano contro il caro carburante in quella Francia con la quale sempre Meloni, populisteggiando sui migranti, ha subito devastato i rapporti. Forse si doveva capire tutto dal suo primo incontro con Macron: subito dopo il passaggio della campanella, previa faticosa ricerca della location e scelta finale su terrazza d’albergo - quasi da relazione clandestina -, foto venute male, sorrisi stiracchiati, da gufi, nella notte al neon.
È così che, giusto allo scoccare dei cento giorni, i sondaggisti registrano un primo zero virgola di calo del gradimento. «Questa destra è impreparata a governare e i suoi elettori hanno scoperto di essere impreparati alle delusioni della politica», è la mirabile sintesi del sociologo Giuseppe De Rita. Notevole, in effetti, la sequela di dietrofront. La cifra più significativa di questo governo. Quella di maggior impatto riguarda il tetto all’obbligo dei Pos, prima annunciato a 30 euro, poi salito a 60 e infine sparito per il pressing di Bruxelles. Ma l’andamento a retromarcia si poteva in effetti capire dalla prima misura varata in Consiglio dei ministri al suo esordio sostanziale, il 31 ottobre. Lì c’era il mitologico Decreto Rave che - un po’ come i decreti sicurezza per Salvini nei gialloverdi - conteneva l’essenza stessa del governo, la sua identità: una stretta fortissima su una materia del tutto priva di urgenza, visto peraltro che il Rave di Modena che aveva dato l'ispirazione era stato pacificamente disperso già prima che i ministri mettessero la penna sul foglio; una stretta che andava a braccetto con l’allargamento delle maglie per i no vax e la fine dell’obbligo vaccinale anticipata di tre mesi per i medici. Una norma, quella sui rave, frutto di estenuanti mediazioni nel governo e che poi è stata riscritta al Senato e svuotata di gran parte della sua capacità d’urto. Insomma alla fine il punto più significativo è la riforma dell’ergastolo ostativo, la vanificazione della cosiddetta Spazzacorrotti. Un esito assai diverso dalle intenzioni.
Non è andata diversamente per quel che riguarda il capitolo “lotta alle Ong”. C’è il capitombolo nei rapporti con la Francia, relazioni ancora strappate dal giorno di metà novembre in cui la Lega di Salvini, ma anche Fratelli d’Italia via palazzo Chigi, ha provato a fare propaganda sul sì di Macron ad accogliere alcuni migranti della Ocean Viking. Ma, in generale, la parabola è evidente: in quei giorni il governo ha provato a non far sbarcare i migranti, poi a stabilire criteri di selezione, per finire con l’arrendersi e far scendere tutti dalle navi. Poi, per recuperare, ha varato un nuovo decreto sicurezza, che nei fatti complica assai la vita alle navi delle Ong, ma non scoraggia le partenze: nella prima settimana dalla sua entrata in vigore (dati del Viminale), sono sbarcate in Italia quasi 3800 persone, dieci volte in più rispetto allo stesso periodo 2022. E in nove casi su dieci continuano ad arrivare coi barchini indipendenti. Un esito piuttosto magro, anche se Meloni ne parla come di una «rivoluzione».
«Non mi pento di nulla», ha sospirato del resto la premier celebrando a Piazza del Popolo i dieci anni di FdI, come se l’azione del suo governo avesse scalato montagne, anziché topolini. È accaduto per la Finanziaria, ma anche per le mosse più sottili.
Quella ad esempio attorno al delicato tema: portare oltre le ambiguità, di cui è sempre stata accusata, il rapporto col fascismo. Una manovra felpata che la premier ha condotto a dicembre, prima ricordando (il 13) i giornalisti romani espulsi dall’Ordine e vittime della repressione nazifascista, poi (il 19) partecipando all’accensione del candelabro per la festa dell’Hannukka nel Museo ebraico di Roma. Tutto vanificato sette giorni dopo (il 26), quando il presidente del Senato Ignazio La Russa ha voluto celebrare la fondazione del Msi, «partito che si è posto in continuità ideologica e politica con la Rsi», ha rimarcato la presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane Noemi Di Segni. Ovviamente, quando le è stata chiesta una posizione, Meloni ha difeso La Russa e il «ruolo del Msi nella storia della Repubblica». C’è da dire che in quel passaggio le è tornata una voce squillante. L’eco di quella che era da leader politica, ora sepolta dal tentativo di trovare una via capace di far scavallare al suo governo quei «due anni» di vita che pure un De Rita le misura addosso, «al massimo».