Lo svuotamento dei poteri del presidente della Repubblica, l'indebolimento del Parlamento, il premio di maggioranza senza limitazioni, l'elezione diretta del premier che non c'è in alcun Paese (e nell'unico in cui era previsto è stata poi tolto). Analisi critica, articolo per articolo, della proposta della destra che «asseconda l’attuale tendenza alla personalizzazione del potere», spiega il professore Angelo Schillaci

Giorgia Meloni ci crede a quella che è stata battezzata "la riforma delle riforme" dalla ministra Elisabetta Casellati che, su quella costituzionale, ci sta lavorando da mesi. La riforma del premierato, per l’assenza di una maggioranza di due terzi in Parlamento, si tradurrà in un referendum e richiamerà alle urne gli italiani nel tentativo di riuscire dove gli altri (Renzi, e prima ancora Berlusconi) hanno fallito: legare il proprio nome alla riforma costituzionale. 

 

Le bozze del testo sul premierato, formato da cinque articoli, stanno circolando da ore. La Presidente del Consiglio ha ottenuto il via libera non solo sull'elezione diretta del premier ma anche sullo stop ai senatori a vita e sulla norma cosiddetta anti-ribaltone. L'intero "pacchetto" è adesso atteso al Consiglio dei ministri di venerdì 3 novembre. E in dissenso dalle forze di opposizione, Matteo Renzi offre il suo appoggio: «Se la Meloni porta la riforma costituzionale con l'elezione diretta del premier, noi ci siamo». Ma cosa c'è dentro questo testo con cui Meloni vorrebbe entrare nella “Terza Repubblica”, quali sono i limiti e quali i pericoli, lo spiega a L'Espresso Angelo Schillaci, professore associato di diritto pubblico comparato all'Università Sapienza di Roma.

 

Professore, le bozze del testo sul premierato che stanno circolando comprendono cinque articoli, ci può dire quali sono gli aspetti che non la convincono?
«Il testo del disegno di legge che sta circolando in queste ore - se il suo contenuto sarà confermato - interviene profondamente sugli equilibri della forma di governo parlamentare. Il dibattito si sta concentrando - e a ragione - sulla posizione del Presidente della Repubblica e sul sostanziale svuotamento dei suoi poteri di garanzia. Ci sono altri aspetti critici. Preoccupano le conseguenze dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio sugli equilibri tra Governo e Parlamento. Anche a Costituzione invariata, il Parlamento sta infatti attraversando una fase di sofferenza per effetto della riduzione del numero dei parlamentari e del sempre maggiore ricorso, da parte del governo, alla decretazione d’urgenza. Senza un rafforzamento del ruolo del Parlamento e senza adeguata garanzia dei diritti delle opposizioni, l’elezione diretta del Presidente del Consiglio renderebbe irreversibile questa situazione».

 

L'elezione diretta del Presidente del Consiglio indebolisce il Parlamento, dunque?
«Distorce il funzionamento della forma di governo parlamentare. Vanifica un elemento essenziale e imprescindibile della nostra forma di governo: la mediazione del Parlamento - e dunque del sistema dei partiti - nella determinazione dell’indirizzo politico. Questa verrebbe sostituita dal rapporto plebiscitario tra gli elettori e il leader. Aggiungo infine che l’elezione diretta del Presidente del Consiglio rappresenta un’ipotesi unica al mondo e che l’unico paese che l’ha adottata - Israele - l'ha abbandonata dopo pochi anni di applicazione. Esistono invece altre esperienze - come quella tedesca o quella spagnola, per non parlare di quella inglese - che hanno assicurato storicamente la stabilità dei governi senza assecondare derive plebiscitarie e preservando il ruolo del Parlamento».

 

Professore, andiamo per ordine,  partiamo dal primo articolo del testo: l'eliminazione dei senatori a vita.
«L’istituto dei senatori a vita ha una giustificazione storica, che risale al Senato pre-repubblicano, con la nomina del Re. Dal 1948 ad oggi, i senatori a vita sono stati scelti tra personalità di grande autorevolezza e prestigio e hanno portato un contributo significativo ai lavori parlamentari: basti pensare alla figura di Liliana Segre. La scelta di eliminare la possibilità di nominare nuovi senatori a vita - gli attuali continuerebbero infatti a ricoprire la carica (art. 5) – ha una motivazione unicamente politica. Si sostiene infatti che la presenza di senatori a vita possa alterare gli equilibri politici in Senato, ma ciò è in assoluta contraddizione con un fondamentale principio costituzionale, quello della libertà del mandato parlamentare. Certo, è difficile non avvertire, nella proposta di riforma, l’eco degli attacchi polemici che il centrodestra mosse ai senatori a vita durante la legislatura 2006/2008».

 

L’articolo 2 eliminerebbe la possibilità di sciogliere una sola Camera, che ne pensa?
«Il potere di scioglimento di una sola Camera è stato esercitato solo nel 1958 e nel 1963 per motivi tecnici: occorreva infatti allineare la durata del Senato (allora di sei anni) con quella della Camera, per consentire l’elezione simultanea di entrambe le Camere. Dopo la riduzione a cinque anni della durata del Senato, questo potere non è stato più esercitato. L’eliminazione del potere di sciogliere una sola Camera si lega al fatto che - nella proposta di riforma - le ipotesi di scioglimento delle Camere divengono sostanzialmente tassative e legate alle vicende del rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento».

 

Gli articoli 3 e 4 prevedono l’elezione diretta del presidente del Consiglio, costituzionalizzano il premio di maggioranza del 55% ed escludono la possibilità di cambi di maggioranza nel corso della legislatura. Che vuol dire?
«Questi due articoli sono il cuore del progetto di riforma. Essi prevedono, in estrema sintesi: 
a) che il Presidente del Consiglio sia nominato dal Presidente della Repubblica dopo essere stato eletto da parte del corpo elettorale, contestualmente all’elezione delle Camere (il testo parla di una unica scheda);
b) che le liste collegate al Presidente eletto ottengano un premio di maggioranza del 55%;
c) che in caso di dimissioni del Presidente del Consiglio, l’incarico di formare il nuovo Governo possa essere affidato solo al Presidente dimissionario o ad altro parlamentare della stessa maggioranza, vincolato alla realizzazione del programma elettorale del Presidente del Consiglio eletto e poi dimessosi. In alternativa, le Camere devono essere sciolte.

 

Un cambiamento radicale
«Queste modifiche pregiudicano, anzitutto, i poteri di garanzia del Presidente della Repubblica. Anche se il testo ne mantiene formalmente invariato l’impianto (si parla ancora di nomina del Presidente del Consiglio e di potere di scioglimento delle Camere), quel che muta radicalmente è la sostanza di tali poteri. La nomina del Presidente del Consiglio diviene la presa d’atto della sua elezione diretta da parte del corpo elettorale (e non si comprende, allora, a cosa serva); e il potere di scioglimento viene ristretto alle ipotesi indicate dal testo costituzionale, e subordinato alla possibilità della maggioranza di proseguire nel proprio lavoro. Molto critica e preoccupante è anche la costituzionalizzazione del premio di maggioranza del 55%. Non solo perché schiaccia in senso maggioritario il funzionamento della forma di governo - in quanto unito all’elezione diretta del Presidente del Consiglio - ma anche perché il premio scatta senza che sia fissata una soglia minima di voti. La coalizione che vince le elezioni (ed elegge il Presidente del Consiglio) guadagnerebbe insomma il 55% dei seggi indipendentemente dalla percentuale di voti ottenuta. Ciò viola il principio di eguaglianza del voto (art. 48 Cost.) e si pone in contrasto con la sentenza n. 1/2014 della Corte costituzionale. Infine, il sistema viene irrigidito e si impedisce alle forze politiche di gestire e risolvere - nell’esercizio della propria responsabilità - situazioni di crisi. Le soluzioni verrebbero predeterminate dalla Costituzione e circoscritte al solo ambito della maggioranza, sotto minaccia di scioglimento delle Camere. Insomma, a una Costituzione che razionalizza la politica al fine di conciliare rappresentanza democratica e stabilità dei governi se ne sostituirebbe una che, in sostanza, si arrende alla politica assecondando l’attuale tendenza alla personalizzazione del potere».