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Politica
dicembre, 2023

La lotta del parroco di Como perché tutti abbiano una casa: «Se la legge non è dalla parte dell'uomo non la si rispetta»

Don Giusto della Valle, parroco della chiesa di San Martino
Don Giusto della Valle, parroco della chiesa di San Martino

Se la burocrazia nega un tetto a chi ne ha bisogno, allora si va a occupare gli immobili inutilizzati. Così Don Giusto lancia un guanto di sfida all’inerzia. «L’avere dei beni comunali o prefettizi o anche della chiesa vuoti, di fronte a delle necessità impellenti è una ingiustizia grave. La parola corretta non è occupare ma prendere in restituzione ciò che ti è di diritto»

Alle 7.30 di una domenica mattina un piccolo coro femminile nella chiesa di San Martino di Rebbio, a Como, canta: «Passa questo mondo, passano anche i secoli, solo chi ama non passerà mai». Il parroco don Giusto Della Valle siede alla destra dell’altare. Nel silenzio che segue il canto, sfoglio il periodico della comunità pastorale, Il focolare. L’editoriale del numero di settembre è rimbalzato dalle pagine del giornale parrocchiale a quelle dei giornali locali fino a una notizia Ansa. «A Como se sei migrante, soprattutto di pelle nera, anche se hai un contratto di lavoro a tempo indeterminato, non trovi casa», scrive don Giusto. «Ma lo scandalo grave è il divario tra super-ricchi e poveri: fioriscono alberghi a cinque e sei stelle con prezzi scandalosi per una notte dai duecento ai duemilacinquecento euro. Chi dorme a cinque stelle e chi sotto le stelle. La casa, un’abitazione dignitosa sono un diritto di ogni persona. Perché allora gli spazi comunali, cioè nostri, restano chiusi?». 

 

Propone quindi ai sindacati di Como di aggregarsi per dare voce a chi ha diritto alla casa e chiede al Comune di affidare gli appartamenti non a norma, non all’Aler ma alle associazioni cittadine, «la parrocchia di Rebbio che io rappresento è in grado di mettere a norma una decina di appartamenti ogni anno». Infine, «come ultima opzione, se qualche famiglia avente diritto alla casa si trovasse messa in strada, propongo di passare in casa parrocchiale a Rebbio perché le si dia la lista degli appartamenti comunali vuoti dei nostri quartieri, affinché ciò che ingiustamente non viene dato venga occupato. Darò loro una mano a entrare, presenterò loro i vicini di casa, li inviterò a rispettare le regole del condominio e se dovessero esserci sospensioni di energia elettrica chiamerò in aiuto l’elemosiniere di papa Francesco. Saluti cari e buona lotta perché tutti abbiano una casa».

 

Sono venuto qui proprio per capire meglio questa lotta, tutta casa e soprattutto chiesa. «Questo stabile ha 250 appartamenti e ne sono usati 100. Gli altri sono vuoti o sono occupati abusivamente da delinquenti», dice don Giusto mentre siamo a bordo del furgone dell’oratorio. Tolto l’abito talare, indossa una camicia a scacchi, mi dirà che veste solo Caritas, che mangia solo alla mensa della parrocchia assieme ai migranti che accoglie nella casa parrocchiale, «una sessantina», ma il dato si aggiorna a ogni telefonata che riceve su un vecchio Nokia con la batteria sempre scarica e che sempre squilla: «Mi hanno detto che sono arrivati 11 minori», «un prete da un’altra parrocchia mi ha chiesto di accogliere due madri con bimbi in culla», «mi hanno segnalato una famiglia con due bambini sordomuti che vive in una stanza», «ci hanno chiamati per una madre che dorme in un garage con una bambina».

 

Chi sono dunque le famiglie che hanno diritto alla casa? «Sono coppie di giovani migranti che si sono formate nell’ultimo decennio: lui ha un buco in cui stare, porta lei nel buco, nasce un figlio, due figli, tre figli, il posto è sempre quello. La burocrazia è lentissima. E questa è una parte del discorso». E l’altra? « L’altra sono immobili, anch’essi comunali, destinati all’accoglienza di minori stranieri non accompagnati e richiedenti asilo e che sono rigorosamente chiusi da diverse amministrazioni, quindi la colpa non è imputabile solo a quest’ultima che ha ereditato spazi già chiusi. Aprirli per fini sociali creerebbe un disagio a questi quartieri, cui è stata promessa sicurezza da campagna elettorale. E così diventano quartieri di case di riposo». Attraversiamo un labirinto di palazzi dalle tapparelle abbassate, con l’erba alta sui muri e le targhette sul citofono spesso senza nessun nome. 

 

«Questa è via Spartaco. In quel palazzo ci abita una sola famiglia», dice don Giusto. Da un’unica tapparella alzata compare una ragazza. Le domando come sia affacciarsi sul panorama di tapparelle abbassate. «Ci sono abituata». Ci spostiamo. Cammino negli ambienti di un edificio in ristrutturazione, dato in gestione alla parrocchia di Rebbio dalla Fondazione svizzera Main Dans la Main. «Sulle demolizioni siamo forti», dice don Giusto. In queste stanze di calcinacci avrà luogo una comunità educativa, ma dietro una porta qualcuno già ci abita. Un ragazzo soffrigge le cipolla e si racconta: «Di notte lavoro da Pizza Garage, la mattina al mercato coperto. Sono arrivato dal Bangladesh, prima in Sicilia poi Como. Mi piace questa casa perché ha quattro persone, due camere, un bagno, c’è cucina e non c’è problema qua. Il problema c’era prima, in Sicilia, eravamo tanti insieme. Qui c’è calma. Vado al lavoro, torno a casa, cucino, mangio, dormo, a scuola ho già fatto un anno. Voglio comprare una casa in Italia, una macchina, poi voglio business. Mi chiamo Saddam».

 

Prendo un caffè a casa di una famiglia del Salvador. Padre, figlia di 11 anni, figlio di 15 e madre che racconta: «Da noi ogni giorno uccidevano persone. Mio marito lavorava in un ristorante e quando rientrava di notte, dove abitavamo gli dicevano che doveva spegnere i fari dell’auto sennò potevano fargli qualcosa. In Italia abbiamo dormito da mia cognata, per sei mesi, in sette, in due stanze. Ci hanno presentato don Giusto e quando la sua segretaria è tornata in ufficio ha trovato una sorpresa: i letti per noi. Siamo stati lì due mesi e poi un giorno ci ha detto “vi ho trovato una casa”».

 

La casa fa parte di un progetto di housing sociale, al piano terra attorno alla tavola si riuniscono le geografie culinarie degli abitanti. Gracia, la bambina, immagina così il futuro: «Staremo tranquilli in una casa tutta nostra. Handi diventerà grande e anche io. Io andrò alla prima superiore, lui all’università, farà la patente, si farà la famiglia e anche io. Farò la dottoressa, curerò le persone». Don Giusto mi parla di questo ciclo vitale: «I bambini che hanno provato fatica e che nella fatica hanno resistito, spero saranno solidali con chi vivrà le stesse vicende».

 

Il sindaco di Como, Alessandro Rapinese, un passato da agente immobiliare, raggiunto al telefono, mi legge la delibera del consiglio comunale dello scorso luglio: «Il Comune di Como è proprietario di 777 alloggi destinati a Servizi abitativi pubblici, circa un terzo risultano sfitti poiché necessitano di interventi di manutenzione straordinaria», poi spiega «questo Comune ha un ritardo pazzesco per scelte inspiegabili fatte dalla precedente amministrazione. Per me la casa è tutto e ogni singolo centesimo passato dalle mie mani l’ho investito nel settore casa, per i miei cittadini. La prossima primavera consegneremo 40 abitazioni. Abbiamo poi affidato tre appartamenti a tre associazioni tramite un bando a cui don Giusto non ha partecipato, che gestisca le anime e soprattutto non consigli alle anime di commettere reati».

 

Fuori dal ranch di Oltrona di San Mamette, un bene confiscato alla mafia, Don Giusto dice: «Ci sono alcune persone che per qualche motivo ci vedono male. O meglio, non vedono il bene che si fa. Se la legge è dalla parte dell’uomo la si rispetta. Se la legge non è dalla parte dell’uomo non la si rispetta. Alcune volte occorre andare anche oltre la legge, essergli avanti. Gesù non è venuto per lasciare il mondo tranquillo ma per mettere il fuoco sulla Terra, affinché il mondo cambi. L’avere dei beni comunali o prefettizi o anche della chiesa vuoti, di fronte a delle necessità impellenti è una ingiustizia grave. La parola corretta non è occupare ma prendere in restituzione ciò che ti è di diritto». In serata, fuori dalla porta del suo ufficio si crea una fila di persone, un bambino africano chiede a un bambino peruviano se parla inglese. Don Giusto risponde al telefono e chiede «E quanti sono?».

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