«Abbiamo vinto, hanno risposto alla chiamata. Ora inizia la vera sfida. C’è tanto da ricucire». Bisogna tornare alla sera della vittoria alle primarie, nella win room di Elly Schlein per trovare la miglior risposta ai tanti che nelle settimane delle primarie hanno provato a imbastire addosso alla neosegretaria del Pd, la prima donna, la più giovane persino di Matteo Renzi, il vestito della pupazzetta manovrata da qualche burattinaio. Sta lì, non scontata, in questa specie di Midas del Pd - riedizione di quel momento di rivolta generazionale in cui il Psi nel 1976 uscì dal proprio declino buttando a mare i capi che lo stavano portando allo sprofondo - la direzione che la nuova segretaria prenderà: nessun volto da prima serata, solo giovanissimi, nessun grande vecchio del Pd, né Goffredo Bettini, né Nicola Zingaretti, che pure arriva per festeggiare, né il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, men che meno Andrea Orlando, che come Gianni Cuperlo non si è fatto né vedere né sentire. Nulla anche da Dario Franceschini: mentre sua moglie e deputata dem Michela Di Biase è accorsa al comitato, il primo indiziato tra i sedicenti burattinai è assente e ha continuato a non telefonare come ha fatto per l’intera campagna, volendo restare fuori da tutto nonostante l’endorsement (la sua scommessa è a lunghissimo termine, e sullo sfondo c’è sempre il Quirinale, tendenza Casini). Nella win room solo Francesco Boccia fa capolino, con discrezione. Gli altri sono tutti un passo indietro, si direbbe quasi tenuti a distanza di sicurezza, un po’ come Schlein ha fatto per le correnti del partito quando ha composto le liste per la nuova Assemblea dem: i più vicini passano a salutare, come Livia Turco, forsennata sostenitrice su ogni palco, oppure sottolineano la propria lungimiranza come fa Peppe Provenzano che appare finalmente pacificato dopo aver sotterrato le proprie ambizioni.
Gli altri, quelli che invece prima proprio non c'erano, arrivano a frotte, quando i numeri si diffondono: ecco il nuovo carro del vincitore. Il carro più sbilenco e meno previsto della storia del Pd. Quello dove nella notte si canta “Bella ciao”, ma poi si balla sulla sigla del cartone animato “Occhi di gatto”, in prima fila la consigliera del Lazio Marta Bonafoni, la deputata Chiara Gribaudo, l'ex presidente del partito Valentina Cuppi, l’europarlamentare Camilla Laureti (unica a puntare Schlein), più discosta Marina Sereni, discreta ma danzante. Una vittoria mai declinata al singolare: «Abbiamo vinto», ripete a tutti la vincitrice, mentre ritocca - la mano arroccata sopra la penna, di fronte Flavio Alivernini, portavoce strategico degli ultimi tre anni - il discorso della vittoria, preparato solo all’ultimo (quello per la sconfitta era pronto da tempo) per chi è accorso a festeggiare. «Perché adesso festeggiamo insieme, non come chi si fa chiamare “il presidente” e ha aspettato di andare in Parlamento per dire ho rotto il tetto di cristallo». Un «uomo solo al comando non basta neanche se è una donna, e non ci serve un nuovo partito: dobbiamo cambiare schema», predicava la segretaria, intervistata dall’Espresso nel 2020, quando qualcuno cominciava a trattarla come una possibile leader.
“Insieme” è adesso la parola che Schlein ripete più spesso, sopra e sotto il palco, indicando in Giorgia Meloni la sua prossima e vera avversaria. Dopo aver telefonato a Enrico Letta. E, soprattutto, dopo aver parlato col segretario della Cgil Maurizio Landini, con il quale coltiva un rapporto di stima reciproca (si sono incontrati anche in questi giorni) e che ha saputo riempire in questi mesi un vuoto a sinistra molto più di tanti volti dei partiti. Risponderà solo dopo al messaggio di Giuseppe Conte. In attesa della botta emotiva per la vittoria, che magari la faccia «sciogliere sul pavimento come Amelie»‚ come Audrey Tautou in quella famosa scena del “Favoloso mondo di Amelie”.
«Non ci vedranno arrivare, come sempre», era la scommessa che Schlein ha ripetuto in questi mesi. Tanto prudente prima, quanto convinta di vincere una volta cominciata la sfida. «Ma si vedeva già il 23 settembre, chiusura della campagna elettorale, il boato che l'ha accolta in piazza del Popolo, per capire già tutto. Accoglienza che Bonaccini non ha avuto», raccontano i suoi. E bastava seguirla in giro per l’Italia, questi due mesi, per vedere qualcosa che l’establishment - politico e anche mediatico - non ha voluto cogliere fino all’ultimo minuto.
Nessun sondaggista ha previsto niente: e del resto la gran parte dei dirigenti e degli amministratori locali aveva preferito la tiepida certezza del candidato favorito, Schlein li aveva lasciati andare, senza lottare. Come si fa con chi allontanandosi ti toglie un problema. Consapevole che persino tra chi l’appoggiava, soprattutto da sinistra, c’era qualcuno che in realtà stava scommettendo sulla sua sconfitta. Alla fine l’hanno votata i napoletani di Scampia e Torre del Greco, i romani di Torre Maura e Tor Bella Monaca, a Caserta e ad Enna, nelle grandi città dove ha fatto 70-30, anche parecchio oltre il confine dello Ztl. In Sicilia, ma pure in Toscana, nonostante Dario Nardella, una regione che è sembrata volersi emancipare dal bonaccinismo e dal renzismo in una botta sola. «Persino in Veneto», dice un po’ incredulo Alessandro Zan. Ha raccolto ancora una volta da terra il disagio dei giovani esclusi, la disillusione dei vecchi militanti, lo dicono anche i primi studi. Nelle primarie Schlein ha conquistato la percentuale più alta di newcomers, gente che non aveva mai votato alle primarie: il 14 per cento dei suoi elettori, dice uno Studio della Società italiana di Scienza Politica coordinato da Marco Almagisti. Matteo Renzi, finora il più alto in questa graduatoria, si era fermato a 11.
Ora la partita si sposta tutta dentro il Pd. Un apparato interamente da conquistare: la scelta dei capigruppo, così come la prima assemblea del nuovo partito, il 12 marzo, sono solo la punta dell'iceberg. Per la presidenza del partito c’è chi fa il nome di Pina Picierno, mentre Stefano Bonaccini sembra destinato all’Europarlamento (sempre che non diventi vicesegretario, per reciprocità con l’offerta che aveva fatto lui). Plastica è l'immagine del primo ingresso al Nazareno della nuova segretaria, volutamente estranea alle consuetudini della casa (entra dalla porta principale, ad esempio), tanto lontana dai simboli noti da scambiare con Enrico Letta un melograno in ceramica che lui ha portato in dono (prossima sigla: Pdm, partito democratico del melograno) in luogo della metaforica campanella, prima di percorrere l'intero corridoio del secondo piano, quello dove ci sono gli uffici di tutti (Letta aveva spostato il suo al terzo, proprio per non incontrare nessuno: non è detto che la scelta sia confermata).
L’incontro con il partito è l’ennesima sfida per una leader politica che, almeno dai tempi della lista Coraggiosa, riesce a far dialogare tra loro i più litigiosi, quelli che di solito non si parlano. Nei gruppi Schlein può contare su un terzo dei parlamentari (25 su 67 a Montecitorio, 17 su 38 a Palazzo Madama), meglio di come andò a Nicola Zingaretti nel 2019, ma non il paradiso. Camera e Senato devono ancora cominciare il consueto riallineamento dem, prevale l’allarme per il nuovo, che viene percepito come una autentica minaccia per il futuro. Si ripropone nei conversari, in ogni sede, un tema che vale per l'intero gruppo dirigente uscente. Quello del cosiddetto “doppio segretario”, allusione al fatto che Schlein è stata eletta dalle primarie, ma Bonaccini aveva vinto tra gli iscritti. Insomma come per i due Papi: il governatore emiliano-romagnolo nelle vesti di un Ratzinger, pontefice legittimo dei dem, la ex leader di Occupy Pd nei panni di Bergoglia l'usurpatrice. È stato subito questo il primo scoglio: quando durante lo spoglio Dario Nardella, mozione Bonaccini, aveva telefonato a Francesco Boccia, mozione Schlein, eccependo la difficoltà a riconoscere la sconfitta, e provando a intavolare la trattativa per una sorta di pareggio sostanziale. Un tentativo azzerato dal procedere dello spoglio.
«Saremo acerrimi avversari di chi ha paura del futuro», promette ora Schlein. Ed ecco così che il salto di specie è fatto. Nella sua prima intervista dopo essere stato eletto Midas, Bettino Craxi coniò il suo slogan, parlando delle alleanze: «Non chiedeteci se staremo con la Dc o con il Pci, noi ora abbiamo un obiettivo: primum vivere». Anche Schlein ora penserà a «vivere», ad esserci come Pd, molto prima di pensare a “con chi”. Le europee 2024, dove si vota col proporzionale, contribuiscono a far slittare in avanti il tema alleanze. E la fallita Opa sul Pd, con i sondaggi che danno già un balzo di tre punti, fa il resto: i dem non sono più una possibile preda per i Cinque Stelle, Giuseppe Conte lo sa bene. La neosegretaria ha sempre avuto con lui buoni rapporti, essendo peraltro diventata vice governatrice proprio quando lui era trattato come il futuro della sinistra; né mai per altro verso ha percepito Matteo Renzi come un qualcosa di problematico (questione anche d’anagrafe: non l’ha mai subito) soprattutto da quando l’ex rottamatore è uscito dal Pd. La priorità è dunque una costruzione più chiara di identità, a partire dai temi del lavoro, dei migranti, della scuola. Non a caso prima uscita in piazza della nuova segretaria, è antifascista e vicina alla Cgil, un’area che Schlein ha coltivato con attenzione, come quelle dell’associazionismo. «La musica è già cambiata, per fortuna», esulta la segretaria che balla “Occhi di gatto”.