Campagne sotto silenzio, pastoie burocratiche, insofferenza dei partiti all’intervento diretto dei cittadini nella genesi delle leggi: ecco perché serve la piattaforma per il voto online

La democrazia italiana fu fondata dai Costituenti su due pilastri fondamentali. In primo luogo, quello della rappresentanza parlamentare, tramite il quale i cittadini sono chiamati a scegliere in libere elezioni i deputati e i senatori. Il secondo pilastro è quello della democrazia diretta, da esercitarsi attraverso il referendum, normato dall’art. 75 della Costituzione. Esso conferisce alla maggioranza del corpo elettorale un potere legislativo di natura per così dire inibitoria, cassando gli atti legislativi oggetto della proposta e mettendo al sicuro, per un periodo di tempo ragionevole, un dato settore da nuovi interventi incoerenti con la volontà popolare espressa nel referendum.

 

Questi due volti della democrazia costituzionale prefigurano un mirabile equilibrio che le istituzioni di garanzia, presidente della Repubblica e Corte costituzionale, dovrebbero garantire. In gioco c’è un più ampio concetto di democrazia, che oggi chiamiamo partecipativa, in cui i cittadini non sono solo chiamati a votare ogni cinque anni su un menu preparato dai partiti, ma possono pure, organizzandosi in comitati referendari, farsi promotori di referendum abrogativi aventi forza di legge. I due pilastri democratici sono entrambi fondamentali e costituiscono «modi e forme» di esercizio della «sovranità popolare» secondo quanto previsto dall’incipit della Costituzione del 1948. Come sempre avviene, un disegno costituzionale, anche raffinatissimo, si scontra con la triviale carnalità dei rapporti di interesse. Fra le forme di partecipazione popolare, quella di «associarsi in partiti politici» (art. 49) ha avuto la meglio, sicché col tempo la democrazia diretta è andata evaporando nella sua efficacia. Tuttavia, priva del diretto controllo del popolo sovrano, la rappresentanza si è mutata in partitocrazia, una forma di privatizzazione delle istituzioni.

 

Paradossalmente, nell’Italia della “Prima Repubblica”, il referendum è stato assai più vitale che nei tempi attuali. Divorzio, aborto e nucleare furono grandi terreni di battaglia referendaria che hanno promosso la partecipazione democratica. In un certo senso, la “Seconda Repubblica” è nata a seguito del terremoto politico prodotto dai referendum elettorali dei Comitati di Mariotto Segni e di Massimo Severo Giannini, maestro del diritto amministrativo. Anche su questa tematica si discusse in un dibattito nazionale fra sostenitori del maggioritario e difensori del proporzionale e il popolo prevalse sui partiti. Soltanto nel 2011, durante la Seconda Repubblica, i referendum “Due Sì per l’acqua bene comune”, assieme a quello sul nucleare e sulle leggi ad personam superarono il quorum. Il popolo bloccò la messa a gara dei servizi pubblici di interesse economico, abrogò il profitto garantito del 7% ai gestori dei servizi idrici, e ribadì il rifiuto del nucleare. Quella tornata, aprì qualche speranza per i movimenti più critici dei capisaldi dell’estrattivismo neoliberale; ma il referendum sulle trivelle, successivamente proposto, non raggiunse il quorum. Da tempo la democrazia diretta non riesce a raggiungere alcun significativo risultato: in alcuni casi è stata la Corte costituzionale ad alzare barricate formalistiche, mentre in altri non sono state certificate le 500 mila firme valide dall’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione. La Lega ha dichiarato di aver raggiunto 760 mila firme per i suoi falliti referendum sulla giustizia tenutisi lo scorso anno, ma essi furono in realtà proposti da 5 consigli regionali di centrodestra. Le firme non depositate sono pure fanfaronate politiche; giuridicamente, esse non sono che il flatus vocis di chi le dichiara.

 

Un sistema di democrazia diretta capace di controllare quella rappresentativa ha come condizione necessaria ma non sufficiente la disponibilità di una cittadinanza attiva decisa a impegnarvisi. Infatti, occorre anche un minimo di leale collaborazione istituzionale perché i benefici democratici di cui all’art. 75 possano essere colti. Due diverse patologie politiche limitano i referendum. Da un lato, la strategia del «silenzio mediatico» da parte dei nemici della proposta referendaria. I cittadini vengono così tenuti all’oscuro di questo loro diritto, conseguentemente non firmano o non si recano a votare, impedendo ai quorum di scattare. Ovviamente tale silenzio mediatico è patologico in presenza di un servizio pubblico radiotelevisivo finanziato attraverso l’imposizione di un canone ai cittadini.

 

La seconda patologia deriva dagli eccessi di formalismo burocratico. Esso erode i tempi già brevi (90 giorni) della raccolta, tramite incombenze burocratiche scaricate sui promotori. Per raccogliere le firme servono gli autenticatori (e spesso non vi sono notai, avvocati o consiglieri disponibili). Raccolte le firme, servono i certificati elettorali, che i Comuni dovrebbero rilasciare per tempo, cosa che sovente non avviene. Sempre i Comuni devono autorizzare i banchini di raccolta (e in certi casi chiedono soldi) e consentire ai cittadini di firmare in loco. Spesso le questure pretendono la segnalazione dell’allestimento banchini come esercizio del diritto di riunione in luogo pubblico (altro abuso). Il tempo per l’effettiva raccolta si riduce così da 90 giorni a meno di 70, causa lungaggini e ritardi non imputabili ai promotori. Per ovviare a questi inconvenienti servirebbe una piattaforma pubblica online. Questa avrebbe dovuto essere pronta entro fine 2022. I cittadini la stanno ancora aspettando.