Liti a destra
Il ruggito di Antonio Tajani
Dopo una vita passata a far finta di non esserci, il segretario di Forza Italia ora è costretto a esistere. Come capo del partito, antagonista di Salvini, alleato riottoso nell’ottovolante di Giorgia Meloni
Non inganni la grisaglia, il doppiopetto, quell’aria un po’ imbolsita che assume nelle occasioni ufficiali. L’atteggiamento mentale che in ultimo più si addice ad Antonio Tajani, 70 anni appena compiuti, eterno vice salito al trono di Forza Italia, più grazie all’entropia che all’ambizione, è tale quale identico alla tarantella calabrese che nel gennaio 2020 ballò a Catanzaro duettando con una raggiante Jole Santelli. Lei, appena vinte le Regionali, si era tolta le scarpe e si era messa a danzare nel comitato elettorale per fare festa. Lui, che all’epoca era vicepresidente di Forza Italia, per raggiungerla in pista fece il suo ingresso tra due ali di militanti, in leggera scivolata, volteggiando poi con un inedito dolcevita nero discretamente attillato, un passo leggero, addirittura frizzante. Pochi attimi rivelatori di un futuro impensabile.
È in fondo questo che la politica adesso gli richiede, l’ultima frontiera. Come la nave stellare Enterprise, nei viaggi di “Star Trek”: arrivare coraggiosamente dove nessun Antonio Tajani è mai giunto prima. Esistere, finalmente, dopo un’intera vita politica passata a fingere di non esistere. Tocca a lui adesso, chi l’avrebbe mai detto, incarnare il ruolo della fronda, in una compagine di governo che alla chiusura estiva del Parlamento sembrava liscia come un blocco di alabastro e che invece, sotto il sole di agosto, ha mostrato un’improvvisa capacità di aprirsi, dividersi, potenzialmente disfarsi, come s’è intravisto col caso del generale Roberto Vannacci e con l’apertura di quel pozzo senza fondo che è ciò che sta a destra della destra.
In questa temperie fattasi inopinatamente vivace, con mesi di anticipo anche rispetto al fisiologico terremoto pre-Europee, a Tajani tocca il ruolo per lui faticoso del subgoverno, della minoranza interna, del sopracciglio alzato, dell’obiezione sul tavolo. Come è stato per la tassa sugli extraprofitti delle banche: protestare per essere stato tenuto all’oscuro, invocare condivisione, chiedere a gran voce modifiche. Portare tutti a pensare di poter suscitare in Meloni quello che nei primi anni Duemila Gianfranco Fini o Marco Follini con la loro guerriglia da vicepremier riuscivano a far postulare di Berlusconi: una reazione avversa, il segno di una capacità di influenza. «L’ira di Silvio sugli alleati», era il titolo classico di quegli anni, adesso pronto a ripetersi, a parti invertite così come nel frattempo invertite sono le percentuali tra Forza Italia e la destra Msi-An-FdI. Se ne intravedono già i segni. Vignetta di Makkox sul “Foglio” di mercoledì, ispirata dall’intervista di Meloni a “Chi”: «Allora, come sta andando questa esperienza di governo?. “A volte, co ’sti alleati, mi sembra di essere sulla giostra del calcinculo”. Scrivo ottovolante». Eccola, versione Luna Park, l’ira di Giorgia sugli alleati.
Ira a giorni alterni: uno contro Tajani, un altro contro Salvini. Perché poi, a differenza di una volta, i due vicepremier invece di allearsi sono in gara furibonda fra loro, per non soccombere sotto l’avanzata del partito del premier. E al segretario di Fi, per quanto rivendichi il ruolo di «ministro dell’Armonia», tocca cambiare interpretazione: da ufficiale di collegamento a forza di interposizione. Dividere dove aveva unito, far sorgere spaccature dove aveva piallato. È venuta così fuori quella bocciatura degli alleati europei di Salvini alla quale neanche Meloni era arrivata. Lei non aveva posto veti all’alleanza con Le Pen e Afd. Lui invece sì. E parecchio: «Alternative fuer Deutschland mi fa schifo», ha scandito il ministro degli Esteri. Nel placido appuntamento della Versiliana, a Marina di Pietrasanta. Urlando. In camicia di lino bianco Ralph Lauren, jeans e sneakers grigio ferro.
Un lessico e un abbigliarsi che già dicono quanto stia andando lontano da se stesso – forse per riavvicinarsi ai suoi avi – l’ex studente del liceo Tasso di Roma (negli stessi anni di Maurizio Gasparri, suo amico da sempre, di Paolo Gentiloni e Marco Follini, rimasti invece estranei), famiglia d’antico lignaggio originaria di Vietri sul Mare, di tradizione politica ma anche militare (il padre ufficiale dell’esercito, con anche ruoli di comando Nato; lui stesso ufficiale dell’aeronautica), monarchico in gioventù fino a essere vicesegretario del “Fronte Monarchico Giovanile”, di casa nel quartiere Parioli, la chiesa di San Bellarmino in piazza Euclide tuttora frequentata come parrocchia, considerato un «fighetto» persino dai giornalisti del Giornale epoca Montanelli, quando era il capo della redazione romana, prima di scendere in politica.
Un andamento lontano dal presente: ma è questo adesso il prezzo della sopravvivenza. Ballare la tarantella. Nella stagione più difficile di Forza Italia, quella in cui bisogna dimostrare di poter avere un futuro, mentre Fratelli d’Italia tenta di fagocitare il partito azzurro da destra, Matteo Renzi da (diciamo) sinistra vorrebbe fare altrettanto e nel frattempo definisce il neosegretario «Forse Italia»; e fuori dalla porta c’è la famiglia B., con Marina e con Piersilvio, le rispettive ambizioni e gli oltre 90 milioni di credito verso il partito.
A Tajani calzava insomma più felicemente l’atteggiamento assunto per decenni e fino a poco fa. Tra i fondatori di Forza Italia, portavoce di Berlusconi nel suo primo governo, molto avendo appreso nei modi da Gianni Letta, con in soprammercato una notevole gommosità che lo storico «portasilenzi» non ha mai avuto, Tajani si è specializzato nel ruolo di cuscinetto invisibile. Tutti sanno che sta da sempre lì, lui raramente rivendica di essere stato eletto per cinque volte europarlamentare, per quattro vicepresidente del Ppe (dal 1994), di aver rinunciato a 486 milioni di buonuscita per i ruoli nell’Ue, non dice mai di essere stato eletto presidente del Parlamento europeo grazie ai voti del Ppe, dei liberali dell’Alde (oggi Renew Europe), e dell’Ukip di Nigel Farage, una compagine dalla struttura abbastanza simile a quella che suggerisce a Meloni per contare dopo le Europee 2024. Tajani non dice mai (e chissà se Berlusconi l’ha mai saputo) che a Gijon, in Spagna, c’è una via intitolata proprio «Antonio Tajani» per volontà del sindacato locale, dopo che da commissario Ue per l’Industria aveva salvato la principale impresa della zona. Non dice mai che tra i suoi avi figura Raffaele Tajani, generale e braccio destro di Gioacchino Murat nella rivoluzione napoletana del 1799, e solo a luglio, nel discorso di insediamento ai vertici di Forza Italia, ha ricordato il figlio di lui, Diego Antonio. Magistrato, avvocato, deputato e ministro della Giustizia del Regno d’Italia, Diego difese fra l’altro Crispi dall’accusa di bigamia e si adoperò per aumentare i poteri della politica sui magistrati: due dettagli che da soli avrebbero giustificato l’eterna simpatia del Cavaliere.
Il punto d’oro dell’invisibilità Tajani l’ha raggiunto durante il governo Draghi: come ricompensa per non essere diventato ministro, fu nominato coordinatore unico di Forza Italia. Raddoppiò allora la morbidezza, oltre l’epoca di superMario: nelle primissime fasi del governo Meloni, Tajani è stato il prezioso ritessitore delle alleanze che il Cavaliere andava strappando, l’altra faccia del liciaronzullismo e dei vaffanculo sibilati a Ignazio La Russa prossimo all’elezione a presidente del Senato (coi voti di Renzi e non con quelli di Forza Italia, a proposito di crediti da riscuotere). È stato lui – un po’ come fece ai tempi con la sua amica Angela Merkel – che ha portato a riconfermare a giugno, a Roma, la kermesse «le giornate di studio» del Ppe che Manfred Weber aveva annullato a febbraio (erano previste a Napoli), in polemica con le frasi del Cav sul presidente ucraino Zelensky («non sarei andato in Ucraina a incontrarlo»). L’armonia, prima di tutto.
Ma la morte di Berlusconi, che è il vero evento politico dell’estate, lo ha portato per forza o per sopravvenuta inclinazione – metamorfosi dei lutti stretti – a dismettere la solita faccia, per trovarsene un’altra. Non è l’ultraterreno: il rischio concreto è dietro l’angolo, ha il nome e il volto di Angelino Alfano, il solo altro segretario di un partito di Berlusconi (escluso Berlusconi). La storia del’ex pupillo del Cav, segretario del Pdl e poi leader dell’Ncd, il suo crollo verticale, l’incapacità a tenersi e far prosperare il centro pur con tutta la sua moderazione, è il timore che mangia i piedi a Tajani, che lo fa continuare a ballare. Al contrario la speranza, in prospettiva, è lusinghiera. Con il suo «equilibrio» (tra le parole più amate), il lungo curriculum, i rapporti internazionali, la placida credibilità, Tajani ha infatti tutte le carte in regola per aspirare un giorno al Colle più alto – anche per assenza o quasi di competitor nel suo schieramento (basti pensare alla parabola discendente dei tre indicati un anno e mezzo fa nella «rosa» di Meloni e Salvini: Pera, Nordio, Moratti. Per non parlare di La Russa). Sempre che la giostra dell’ottovolante del centrodestra non lo faccia fuori prima.