Politica

La "bonifica" di Caivano, l'ultimo spot del governo. Che sulla violenza di genere ignora la formazione

di Simone Alliva   5 settembre 2023

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L'approccio securitario portato avanti dall'esecutivo fa parte di una babele di iniziative poco coordinate e organizzate. Mentre manca l'educazione sessuale a scuola, i centri antiviolenza sono senza fondi e gli operatori non sono stati istruiti

L’asse improbabile Eugenia Roccella-Rocco Siffredi contro il porno. La castrazione chimica per gli stupratori voluta da Matteo Salvini. La circolare del ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara che chiede agli studenti di parlare di violenza di genere seguendo il modello, poco sperimentato, dell’educazione tra pari. Sono una babele le iniziative annunciate dal governo Meloni, impregnate spesso di emotività, sulla scia di un’estate crudele che si consuma sul corpo delle donne: dallo stupro di Palermo a quello di Caivano, passando per i femminicidi, una donna morta per mano di un uomo ogni tre giorni.

«Se questo è l’approccio significa che non si riesce a leggere in maniera corretta il fenomeno di violenza maschile sulle donne», commenta, con voce stanca, Antonella Veltri, presidente di D.i.Re, la rete nazionale dei centri antiviolenza che da anni costruisce percorsi di fuoriuscita dalla violenza affiancando il lavoro di prevenzione e formazione. «Ho la sensazione che si stia lavorando in maniera frammentata e che non ci sia un pensiero strutturato. Il punto è l'educazione che previene il fenomeno. Questo ragionamento si può estendere anche ai governi precedenti. Le misure di contrasto fino ad oggi sono tutte securitarie, a reato avvenuto». Le leggi che prevengono e le sanzioni che puniscono la violenza di genere servono ma non bastano. Con evidenza. Nessun aggressore si ferma al pensiero della pena che lo attende. Educazione è la parola chiave. Ma ogni partito dentro il Parlamento la declina a modo suo.

L’Italia è uno degli ultimi Stati membri dell’Unione Europea in cui l’educazione sessuale o affettiva non è obbligatoria a scuola. Dal 1977 a oggi ci sono state 16 proposte di legge, tutte naufragate. La sinistra tentenna, la destra con l’arrivo dei Pro-Vita dentro le sue file, in Parlamento, a fatica si libera dall’ossessione dal fantasma del gender che blocca ogni tentativo di educazione alle differenze, le demonizza e le condanna.

Contraria all’educazione sessuale nelle scuole è la stessa presidente del Consiglio, Giorgia Meloni: «Credo sia meglio che venga affidata alle famiglie», è da sempre il refrain della leader di Fratelli d’Italia. Tempi lontani quelli raccontati dal giornalista Aldo Torchiaro suo ex compagno del liceo: «Al Vespucci di Roma promuovemmo l'ora di educazione sessuale fatta da quelli del consultorio dell'Aied».

Ma oggi più di ieri la realtà della violenza di genere irrompe nel mondo politico. È impossibile chiudere gli occhi di fronte alla violenza degli uomini che usano le donne come bambole gonfiabili di un videogioco criminale perché si sentono in diritto di farlo. Un fenomeno che attraversa le case prima che le strade. Tanto che la segretaria del Pd, Elly Schlein ha pubblicamente lanciato un appello alla presidente Meloni: «Lavoriamo insieme. Il tema della violenza di genere non è tema di dialettica politica. Vorrei che lavorassimo tutti insieme per fare in modo che si agisca sul piano di prevenzione oltre che sulle misure di repressione su cui abbiamo già dato la nostra disponibilità a lavorare». Le minacce e le sanzioni non bastano e a dirlo, sorprendentemente a destra, è anche Laura Ravetto, parlamentare della Lega, responsabile Pari opportunità del Carroccio: «Credo che l’educazione spetti alla famiglia e l’istruzione alla scuola», è la premessa che avanza come scudo: «Ma ci troviamo di fronte per il 70% dei casi a delitti intrafamiliari o commessi dal partner o dall’ex partner. Ci vuole un affiancamento scolastico perché con tutta evidenza se ho un reato del genere devo rivolgermi alla scuola, l’agenzia formativa per eccellenza».

La proposta dell’onorevole Ravetto che ricopre il ruolo di vice-presidente della commissione bicamerale d’inchiesta sui femminicidi è semplice: «Prevede che nell’ora di educazione civica si prenda atto di questa piaga sociale: lotta allo stereotipo, e soprattutto educazione dei bambini all’idea di non oggettivazione della donna e alle bambine alla cultura della non rinuncia. La donna non può essere in alcun modo un oggetto e deve essere rispettata». Non vuole sentir parlare di educazione sessuale: «Non è un affare mio». Non vuole sentir parlare di lotta agli stereotipi maschili: «Mi fate fare una cosa che riguarda solo le donne? Pensi a me come a Greta Gerwig, la regista di Barbie: il maschio va educato». La proposta di legge, a costo zero, è arrivata già in Commissione femminicidi e si trova anche sul tavolo del ministro Valditara che valuta un decreto di governo che possa assorbirla: «Dal mio partito siamo compatti, a me preoccupa la sinistra».

Ma la sinistra ha un’altra idea di educazione e di contrasto alla violenza di genere. Le distanze sono chiare, le illumina Cecilia D’Elia, senatrice del Pd anche lei vicepresidente della Commissione sui femminicidi: «Al Senato ho presentato come prima firmataria il disegno di legge 294 che attende solo di essere discusso. Abbiamo proposto azioni concrete e l'integrazione dei curricula delle scuole, abbiamo previsto il coinvolgimento delle famiglie attraverso l'informazione, la pubblicità e un'attenta comunicazione circa gli interventi educativi deliberati nell'ambito del piano triennale. Abbiamo costruito l'idea di una formazione del personale docente e non docente».

D’Elia punta il dito contro le misure del governo «C’è un non detto dietro la retorica di questo governo: sia il Codice Rosso che la legge dell’attuale ministra leghista Giulia Bongiorno, non sono finanziati. Si chiede ad esempio alle Procure di fare tutto in tre giorni e poi non si danno gli strumenti per farlo, non si formano gli operatori di giustizia. Per me la priorità è la formazione ma qui non c’è nulla: né formazione  né finanziamento. Pensiamo poi alle sentenze che colpevolizzano la donna e deresponsabilizzano lo stupratore: la palpata “era breve”, la ragazza “troppo brutta”, la porta “socchiusa” oppure guardiamo alle violenze di Palermo. Si dice spesso, a ragione che non c’è una cultura del consenso e della sessualità e poi non si fa nulla. Siamo immersi in una cultura patriarcale e non riguarda solo i ragazzi. La politica non può produrre solo norme ma promuovere azioni nei territori e formazione, progetti nelle scuole. Invece per anni la destra ha contrastato la lotta agli stereotipi di genere con il fantasma della teoria gender e bloccato tutto». Ma lavorare insieme si può, chiosa: «Da sempre abbiamo lavorato anche con le donne di destra. Ma c’è una questione di approccio culturale, di stereotipi sessisti che non può essere ignorato altrimenti non ce la faremo mai. Noi siamo pronte. Pensiamo sia un tema importante ma quello che serve è produrre strutturalmente uno sguardo di genere, non solo spot, non iniziative per dire che si è fatto qualcosa».

Questioni complesse e sottili, non di linguaggio, ma culturali. Su quelle vitali, di metodo e di possibilità chiede più attenzione la presidente di D.i.Re: «Lavoriamo molto con le scuole, ma con difficoltà. Quando cambia la dirigenza scolastica tutto viene rimesso in discussione. I nostri sono interventi su base volontaristica, non c’è un sistema, non c’è una strategia. Si fa formazione in Emilia-Romagna, più difficile in Calabria. Lavoriamo per l’80% del tempo come volontarie. I fondi scarseggiano. Ma si può assegnare al volontariato un tema di così grande portata?». La domanda resta sospesa, tra maggioranza e opposizione, alla ricerca di una solidarietà di genere.