Erasmus, telelavoro: resta alta la mobilità tra Stati Ue. Perché le nuove generazioni si spostano in base alle loro esigenze di vita. E le aziende cercano di diventare più attrattive, non solo grazie ai salari

Galeotto è stato il programma Erasmus. Dopo un semestre di studi presso l’Università tecnologica di Eindhoven, Lina Wisniewski, polacca ma cresciuta nella campagna occidentale tedesca, ha deciso che in Germania non sarebbe più rientrata. La neo Silicon Valley olandese sarebbe stata la sua nuova casa. A 25 anni e a tre mesi dalla fine del master in Scienze informatiche ha trovato un lavoro ben remunerato con 40 giorni di ferie l’anno in Asml, il più grande fornitore mondiale dell’industria dei semiconduttori, la cui struttura di aiuto agli espatriati l’ha anche aiutata a trovare casa in un mercato difficile come quello olandese. Era il suo sogno. «Guadagno più dei miei genitori insieme e vivo in una comunità con cui sono in perfetta sintonia», sorride a cavalcioni della sua nuova bicicletta turchese prima di andare a una partita di bowling organizzata dal suo capo per costruire lo spirito di squadra.

 Come lei, poco meno del 20 per cento dei giovani europei ogni anni ignora le frontiere del Paese in cui è cresciuto alla ricerca di un lavoro e di un ambiente che meglio si addicano ai suoi sogni e alle sue speranze. Si tratta di una percentuale che non è variata negli ultimi 15 anni, ma a cambiare sono state le motivazioni che portano fuori dai confini nazionali: se salari più alti restano una spinta importante, a contare sempre di più sono aspetti come la cultura e la mentalità della nuova città europea di approdo. E anche il clima politico e il grado delle discriminazioni  percepite, un aspetto chiave per le donne in generale e per la comunità Lgbt in particolare. Come se la generazione diventata adulta durante gli anni della pandemia avesse rimesso in ordine i valori della propria esistenza, dando priorità a ciò che non solo fa stare bene, ma colora anche di senso la vita. La mobilità nel contesto dell’Unione europea è aiutata dal fatto che non sono necessari permessi lavorativi, dal riconoscimento delle qualificazioni e dalla trasferibilità (migliorabile) dei diritti pensionistici accumulati a zonzo per il Vecchio Continente. Senza contare che tutti gli europei che lavorano in un Paese dell’Ue hanno diritto agli stessi sussidi garantiti ai suoi cittadini: dall’integrazione del reddito alla disoccupazione, dalla formazione per il reinserimento nel mondo del lavoro agli aiuti alla famiglia. Ogni dettaglio conta: la vera risorsa scarsa di un Continente dai capelli sempre più grigi sono i giovani. I Paesi che riusciranno ad attrarli con salari elevati e condizioni di lavoro favorevoli saranno i soli che vinceranno la sfida economica dei prossimi anni.

Non è facile trattenere i ventenni e i trentenni d’oggi. Non solo danno per scontata la mobilità del mercato del lavoro, imparano altri idiomi senza difficoltà e sono naturalmente inclini al cambiamento. Ma sono anche i primi a non essere più disposti ad accettare un clima politico discriminatorio che metta a repentaglio sia la felicità personale sia la produttività lavorativa. E se per anni le aziende europee non hanno dovuto preoccuparsi del benessere dei dipendenti perché questi non avevano alternative, ora, con un trend demografico negativo, devono correre ai ripari. Secondo un recente sondaggio del Rapporto mondiale sulla felicità, nonostante l’Europa sia ai vertici del Globo per qualità della vita – con Finlandia e Danimarca come sempre al top – non lo è, però, per benessere professionale. Oltre un terzo dei lavoratori non è contento dell’equilibrio tra vita e lavoro, un quarto afferma di non avere possibilità di crescita, un quinto non si sente apprezzato e crede di meritare di meglio. Così lascia e guarda altrove.

 

Negli Stati Uniti le hanno chiamate «le grandi dimissioni»: da noi è stato soprattutto un cambio di consapevolezza accompagnato da un aumento delle opportunità. Negli anni 2022 e 2023 nell’area Euro sono cresciuti i posti di lavoro disponibili rispetto a prima della pandemia, con l’Austria in testa (più 5 per cento), seguita da Belgio e Olanda (più 4,9 per cento). «Avevo raggiunto il mio soffitto di cristallo in Italia», racconta Elena La Vista, trent’anni appena compiuti, da due a Bruxelles come venditrice delle ceramiche modenesi Florim: «Per crescere dovevo superare le Alpi e, quando ho trovato un’azienda italiana che mi ha offerto l’occasione di partire, l’ho presa al volo. Sarei andata ovunque, anche in Svezia, ma ho avuto la fortuna di sbarcare nella capitale d’Europa dove sto incontrando tante persone diverse, usando quotidianamente tutte le lingue che conosco e imparando perfino l’olandese». Per attrarre i dipendenti migliori le aziende offrono soluzioni lavorative sempre più flessibili e ibride. Il telelavoro, lascito della pandemia, è diventato, almeno a tempo parziale, la nuova norma, posto come è costantemente in cima ai desiderata dei giovani dipendenti: grazie alla mobilità garantita dall’Unione europea, i giovani hanno sviluppato una vita non solo meno statica, ma anche frammentata su più città, quando non su più Stati, che il telelavoro consente di tenere insieme senza rinunce. Nel moderno concetto d’Europa non ci sono solo i 27 Stati dell’Unione, ma anche gli “associati” come la Norvegia, la Svizzera e la Gran Bretagna post Brexit. E infatti, dopo avere riaperto il tavolo per gli accordi con la Svizzera e nonostante una Brexit faticosa e dolorosa, la Commissione europea da aprile scorso sta negoziando anche un nuovo accordo oltre Manica che includa la riattivazione del programma Erasmus e faciliti periodi di interscambio lavorativo (Erasmus+). E se Londra era inizialmente riluttante a causa dei costi che dovrebbe sopportare (il numero degli studenti in entrata era il doppio di quelli in uscita), i recenti colloqui tra il primo ministro Keir Starmer e la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, fanno ben sperare. A dimostrazione che ormai giovani europei si nasce. E che tutta l’Europa è paese.