DDL Sicurezza
Il centro sociale deve morire
Il governo Meloni fa la guerra a questi spazi autogestiti e gratuiti. Perché vuole soffocare il dissenso. Con gli sgomberi che si moltiplicano e le città che perdono laboratori di cultura
L’ultimo attacco è nelle pieghe del disegno di legge Sicurezza, che all’articolo 10 punisce «l’occupazione arbitraria di un immobile» con un massimo di sette anni di carcere. Poi c’è la stretta al diritto di manifestare con blocchi stradali o ferroviari e con l’aggravante di trovarsi in gruppo. È una vera e propria strategia, quella del governo di Giorgia Meloni, per soffocare il dissenso: fin dall’inizio del suo mandato, infatti, la premier ha dichiarato guerra ai centri sociali, dipinti come focolai sovversivi. Gli sgomberi si intensificano in estate: ma l’ostilità arriva da lontano. E rischia di rappresentare la lenta uccisione di spazi liberi, autogestiti e gratuiti: per le città, soprattutto in periferia, un vuoto culturale.
È il 22 agosto, quando gli attivisti e le attiviste del laboratorio sociale Buridda vestiti a lutto salgono gli scaloni del rettorato dell’Università di Genova sorreggendo una bara con la scritta: «Qui giace la cultura». Il destinatario del messaggio funebre a ritmo di tamburo è appunto il rettore, Federico Delfino. Perché lo sgombero, avvenuto all’alba del 31 luglio, è stato motivato con il progetto di fare spazio a uno studentato, finanziato con otto milioni e mezzo del Pnrr. Un colpo di spugna su dieci anni di attività dal basso nell’edificio abbandonato dell’ex Magistero, inaugurato da Benito Mussolini. Attiviste e attivisti attaccano: «Non si può sgomberare un’idea». Accade a Genova, la città dove don Andrea Gallo nel 2011 diede corpo a un’utopia, un progetto unico in Italia, diventando mediatore tra centri sociali e istituzioni e creando un’associazione che, dopo la sua morte, naufragò. Ed è proprio nella città che porta ancora le ferite del G8 che «con il governo di ultradestra di Meloni stiamo assistendo a un laboratorio di repressione per soffocare gli spazi sociali», è l’amara riflessione di Domenico Chionetti, portavoce e braccio destro di don Gallo, «una mossa subdola giustificata da progetti e fondi da non sprecare, a discapito di luoghi dove si produce cultura dal basso. Luoghi descritti come discariche dell’immaginario». Perché se la premier non ha nessuna intenzione di sciogliere un’organizzazione neofascista come CasaPound, che da più di vent’anni sta abusivamente nel palazzo di via Napoleone III a Roma, ha invece annunciato da subito «tolleranza zero verso le occupazioni». Promessa mantenuta.
A pochi giorni di distanza dal blitz al Buridda, il copione si ripete quasi identico a Milano. Alle ore 7 del 6 agosto, la palazzina blu occupata da 21 anni dal centro sociale CasaLoca in viale Sarca, nel quartiere Bicocca, viene sgomberata e messa sotto sequestro. La denuncia era partita tre anni fa dalla società Lambda srl, oggi al cento per cento di Focus Investments, spin off del gruppo Prelios (ex Pirelli Real Estate): un gigante con asset per 40 miliardi di euro. La palazzina, una volta dopolavoro della Pirelli, era vuota quando venne occupata nel 2003. Il centro sociale nasce dall’associazione Ya Basta!, ha una matrice zapatista e internazionalista e già vent’anni fa aveva intercettato la questione caro affitti con l’idea di una mensa a prezzi popolari. Che cosa ne sarà di questo spazio? «Lo stabile verrà ora restituito al legittimo proprietario, che procederà alla sua messa in sicurezza», ha esultato sui social il titolare del Viminale, Matteo Piantedosi. Anche qui nuove abitazioni per studenti da affittare a caro prezzo?
A pochi giorni dal “funerale” del Buridda – il laboratorio sociale che negli anni ha animato il quartiere con concerti, il primo fab-lab italiano, il festival “Critical Wine” – il sindaco di Genova, Marco Bucci (candidato del centrodestra alle Regionali), ha incontrato una delegazione per proporre che il collettivo costituisca un’associazione a cui affidare uno spazio. «L’autogestione per noi rimane imprescindibile – è la riflessione di attiviste e attivisti – è un mezzo attraverso il quale portiamo avanti la nostra vertenza per uno spazio liberato da gerarchia e mercificazione». La partita per ora resta aperta. Ma il caso del Buridda deflagra a un anno dallo sgombero del centro sociale Zapata, per trent’anni presidio di antifascismo, arte e cultura. Anche qui, la motivazione furono i fondi Pnrr: le stanze dei Magazzini del Sale, nell’intento del Comune, dovevano fare posto all’Accademia Ligustica di Belle Arti, anche se il suo direttore, Guido Fiorato, aveva ripetuto che «sì, abbiamo bisogno di spazi, ma non sulla pelle degli altri». Per lo Zapata si mobilitarono la città e artisti come Caparezza, Bandabardò, Statuto, Zerocalcare. Niente da fare: l’offerta-ultimatum del Comune fu ancora la costituzione in associazione, così da assegnare un piano del Palazzo della Fortezza a canone ribassato. Attiviste e attiviste restano però in attesa di un posto più adatto.
Emblematica la vicenda dell’Askatasuna, a Torino: storico centro sociale in un edificio occupato da trent’anni in borgo Vanchiglia, protagonista della militanza No Tav e nel mirino delle forze dell’ordine. Qui, l’idea del sindaco Stefano Lo Russo di legalizzarlo, iscrivendolo nel registro dei beni comuni della città, per poi riaffidare agli attivisti la gestione ha scatenato polemiche e una crociata da parte della deputata FdI Augusta Montaruli («È inaccettabile che le istituzioni avallino tale violenza politica», le sue parole durante l’interrogazione del 31 gennaio a Piantedosi). Il percorso resta sofferto anche per attiviste e attivisti, tanto da provocare scissioni.
A Milano il centro sociale Baraonda, dal 1995 a Segrate, porta avanti un laboratorio permanente di democrazia diretta. «Tra il nostro spazio e il Comune, proprietario dello stabile, c’è un accordo di concessione – spiegano a L’Espresso – questo potrebbe tutelarci forse da sgomberi improvvisi, ma non da possibili azioni di rappresaglia. Pur svolgendo un ruolo essenziale per la socialità e la cultura, lo scarso interesse delle istituzioni nei nostri confronti dice che siamo semplicemente tollerati. È evidente quanto la situazione attorno a noi si sia fatta preoccupante: solo nell’ultimo mese, nella rete Emergenza Gaza di cui facciamo parte con Buridda, anche CasaLoca è stato sgomberato». La scelta di costituirsi in associazione è un compromesso? «Si definiscono questi spazi “isole di illegalità”, ma la realtà è che nei Comuni spesso le isole di legalità non costruiscono nulla per i cittadini: luoghi sportivi, aule studio, sale musica, centri di aggregazione pubblici sono l’eccezione, non la regola. Gli spazi sociali si rimboccano le maniche per sopperire al vuoto. E ciò non piace». Dunque, «la legalizzazione, o concessione come nel nostro caso, può essere una strategia: considerarla come un compromesso sarebbe limitante». Piuttosto, «un mezzo per poter resistere».
«Non si può ridurre tutto alla questione sterile della legalità – è la riflessione conclusiva di Chionetti – don Gallo è stato sempre vicinissimo ai movimenti del Sessantotto, entrava nelle assemblee in Università. Il motivo non era attenzione giovanilistica: vedeva nell’autogestione e nell’assemblea due valori di crescita fondamentali che ritrovava anche nella sua chiesa. Il punto, dunque, è che gli spazi sociali devono uscire dalla precarietà e le città devono stringersi intorno a loro senza distinguo. Perché riempiono i vuoti: con cultura e aggregazione».