Repressione
Come si spegne la coscienza dietro le sbarre
Nelle carceri cresce la consapevolezza di poter rivendicare i diritti violati tra sovraffollamento e degrado. Il caso di Torino insegna. Ma il ddl Sicurezza mira a sopire ogni protesta pacifica
Con il ddl Sicurezza, gli spazi di protesta pacifica rischiano di ridursi anche in carcere. Con i nuovi reati che il disegno di legge introduce, chi manifesta il proprio dissenso nei centri di permanenza per il rimpatrio e negli istituti di pena rischia fino a vent’anni di carcere. In questi luoghi, rivendicare i propri diritti fondamentali è già molto difficile. Spesso, infatti, le persone detenute non hanno le risorse economiche per rivolgersi a un’assistenza legale e la priorità per loro è quella di affrontare i problemi quotidiani legati a sovraffollamento e degrado.
Quando Nicoletta Dosio, storica attivista del movimento No Tav in Val Susa, è stata condannata per diversi episodi di disobbedienza civile, avvenuti tra 2012 e 2016, ha trascorso tre mesi in carcere per poi scontare il resto della pena ai domiciliari. «A parità di condotta, se fosse stato in vigore il ddl Sicurezza, avrebbe avuto una pena ancora più alta, perché il fatto di protestare contro una grande opera è considerata una circostanza aggravante», osserva l’avvocato Gianluca Vitale. Oggi Dosio ha 78 anni e si trova in stato di detenzione domiciliare per avere violato le misure cautelari che le erano state imposte in precedenza, poi ritenute inapplicabili dalla Corte di Cassazione.
Dei giorni trascorsi nel carcere di Torino nel 2020, durante la pandemia, Dosio ricorda le proteste pacifiche nei confronti dell’ulteriore isolamento che lei e le altre detenute dovevano affrontare. Racconta che le proteste nascevano perché non era più possibile avere contatti con i propri cari e le persone si sentivano in pericolo. Il sovraffollamento, con il conseguente rischio di ammalarsi facilmente, generava agitazione. «Tantissime donne erano dentro per reati lievi, allora si chiedevano l’amnistia e l’indulto. Avevamo pensato di organizzare un’assemblea in presenza delle guardie carcerarie e il direttore aveva proposto di fare una commissione a cui dovevano partecipare anche le rappresentanti e i rappresentanti dei detenuti, ma alla fine chi doveva partecipare è stato scelto dalla guardie».
Tra i modi di esprimere il dissenso in carcere c’è la cosiddetta battitura, ovvero la pratica di battere sulle inferriate per farsi sentire dentro e fuori le mura. Anche Dosio e le altre detenute l’avevano utilizzata per farsi sentire dai parenti che si erano presentati davanti all’istituto per chiedere di riprendere le visite. Oggi, modalità di protesta come queste rischiano di essere pagate duramente. Tuttavia, in carcere la coscienza di poter rivendicare i propri diritti violati dal sovraffollamento e da pessime condizioni sanitarie esiste.
Una spia di questo sono i risarcimenti riconosciuti dai magistrati di sorveglianza ai detenuti che hanno potuto presentare istanza per situazioni di detenzione contraria all’umanità della pena e non aderenti ai parametri stabiliti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Negli ultimi sei anni sono stati 24.301, circa 4.000 ogni anno. Questo significa non solo che negli istituti di pena italiani persiste una sistematica violazione della dignità umana, ma anche che i detenuti sono pronti a denunciarla.
Secondo la rilevazione del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, nelle carceri italiane sono presenti 61.134 detenuti in 47.004 posti regolarmente disponibili, con un tasso medio di sovraffollamento del 130 per cento. In 56 istituti il tasso di affollamento supera il 150 per cento, in cinque è superiore al 190 per cento. Dopo l’annunciata riduzione della popolazione carceraria lasciata intravedere con il decreto Carceri dal governo, le proteste non si sono fermate.
Proprio nel carcere femminile di Torino, il 5 settembre scorso, oltre 50 detenute hanno avviato uno sciopero della fame a staffetta chiedendo alle istituzioni di ridurre il sovraffollamento e il limite della liberazione anticipata speciale. Tra queste ci sono anche coloro che Dosio considera delle «amiche e compagne», donne che vogliono proteggere la loro dignità, animate dalla consapevolezza che i loro diritti hanno un valore. Nell’istituto torinese, solo nel 2023, si sono verificati quattro suicidi e 57 tentativi di suicidio, 135 atti di aggressione, 159 di autolesionismo, 255 atti di protesta individuale tramite sciopero della fame, sete o rifiuto delle terapie e 15 proteste collettive. Un mese dopo l’inizio della protesta nonviolenta delle detenute torinesi, il testimone dello sciopero è stato raccolto dai detenuti del carcere di Siracusa.
«Anche una protesta pacifica come lo sciopero della fame delle detenute potrebbe essere considerata un reato di rivolta carceraria – spiega l’avvocato Vitale – perché con il ddl Sicurezza viene considerata tale la resistenza, anche passiva, agli ordini dell’autorità che mirano a mantenere la sicurezza all’interno dell’istituto. Attualmente lo sciopero potrebbe al massimo essere considerato motivo per ipotizzare una sanzione disciplinare, ma con l’entrata in vigore del ddl potrebbe esporre le detenute a un aumento di pena di alcuni anni».
Per Rita Bernardini, presidente dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, ong internazionale che si batte contro la pena di morte nel mondo e per i diritti dei detenuti, i reati introdotti dal ddl Sicurezza dentro e fuori dal carcere rappresentano un peggioramento della democrazia. «Un’iniziativa comune tra i detenuti, quando ritengono che siano violati i loro diritti, è quella della resistenza passiva. Anche questo oggi può diventare reato. Ma se i loro diritti non vengono rispettati, che strumenti hanno per difendersi dagli abusi?». Bernardini visita regolarmente gli istituti di pena confrontandosi con i detenuti e, secondo lei, attualmente in carcere non c’è allarme sulle modifiche che potrebbero essere apportate dal ddl, di cui la maggior parte delle persone dietro le sbarre è all’oscuro.