Soltanto un italiano su 10, secondo l’Istat, ha intenzione di acquistare una vettura nei prossimi dodici mesi. Perché non è più desiderata e desiderabile dai giovani, connessi e perciò più stanziali

Per tutti e per ognuno l’automobile desiderata è nella gamma Fiat». Questo assioma d’altri tempi, col suo stile morigerato e scolastico, è una pubblicità Fiat di oltre mezzo secolo fa. Anni ’60, punto, e non c’è bisogno di suppellettili verbali. Oggi l’automobile, di marca Fiat o di una parente di gruppo o di un conglomerato statale cinese o di una multinazionale americana, è davvero «desiderata»? Il professor Mario Deaglio, economista di sguardi larghi, ha risposto con un franco, secco, dotto: no. Quasi quasi è un impiccio. Quasi quasi è un fastidio. Questo è un modo, e la sintesi, perdonate, ha le sue grinze, per spiegare la crisi dell’auto senza spiegare la crisi dell’auto come se fosse un fatto di architetture finanziarie e industriali e non anche, e soprattutto, un fatto sociale. Questo è un modo per rovesciare la prospettiva. Per spiegare la crisi dell’auto non basta impilare le aziende una dentro l’altra, sommare fatturati, mercati, dipendenti e medie annuali di vendite. Per spiegare la crisi dell’auto qui in Italia e in Europa e con parecchie similitudini ovunque in Occidente, per spiegare un fenomeno globale (cit. Deaglio dal quotidiano La Stampa), è necessario premettere che l’automobile è un prodotto sempre meno desiderato, sempre meno iconico, sempre più costoso, sempre più complicato. Per dirla correttamente: la domanda è condannata (peggio che destinata) a diminuire e diminuire ancora. Perché noi occidentali, e Deaglio lo illustra con i numeri, siamo più vecchi, più poveri, più connessi e dunque stanziali. Invecchiamo e ci impoveriamo, mentre un altro mondo scoppia di gioventù e si sta impratichendo con la ricchezza. Il benessere. Fine. Deaglio lo dice meglio: «Ci sono elementi strutturali che, tutti assieme, danno una svolta irreversibile, e non positiva, al settore industriale dell’auto in Occidente. La popolazione invecchia e quindi c’è meno gente che guida, perché gli anziani guidano meno oppure non guidano. I giovani tendono a essere più poveri e quindi a non avere i soldi per comprare l’auto. Poi soprattutto il lavoro oggi è tale che gli spostamenti possono essere ridotti. Noi quando pensiamo a lavorare pensiamo sempre all’operaio che va in fabbrica, ma questi ormai sono una minoranza, un 20 per cento. I rapporti a distanza di ogni tipo non azzerano la mobilità con l’auto, ma la riducono in maniera abbastanza forte. La nuova domanda di trasporto non si rivolgerà all’auto com’era quando ero giovane io». Gli «elementi strutturali» sono inequivocabili. Non ne facciamo subito un argomento generazionale. Soltanto un italiano su dieci, secondo le ultime indagini Istat, ha intenzione di acquistare una automobile nei prossimi dodici mesi. Va così, a parte qualche oscillazione statistica, da un paio di anni. Non c’è ricambio. I vecchi clienti sovrastano i nuovi clienti. Anzi i nuovi clienti si stanno estinguendo. Il 27 per cento dei ragazzi nella fascia 18-24 anni neppure ha la patente. E proprio la patente, ingresso principale nell’età adulta, non è più una conquista indifferibile per i neomaggiorenni. La si prende, quando la si prende, attorno ai 21 anni. Il 21° rapporto sulla mobilità degli italiani di Isfort, acronimo che sta per Istituto superiore di formazione e di ricerca per i trasporti, fa intuire quanto sia realmente prudente dotarsi di un bel po’ di pessimismo: «Il calo demografico previsto da Istat produrrà una riduzione del -2 per cento degli spostamenti nel 2034 e del -7 per cento al 2044. Anche gli spostamenti dei lavoratori subiranno una contrazione del -6 per cento al 2034 e del -14 per cento al 2044». Il rapporto certifica che l’uso dell’auto è sempre «dominante», però muta assai da paesino a cittadina a metropoli. In comuni con più di 250.000 abitanti, il 49,5 per cento della popolazione si muove in auto contro il 78 per cento dei comuni sotto i 10.000 abitanti. Questo succede perché, con lentezza e però con costanza, i comuni con più di 250.000 abitanti, e anche leggermente più piccini, scoraggiano l’utilizzo della vecchia macchina a carburante: zone a traffico limitato, domeniche ecologiche, parcheggi cari che siano pubblici o privati. Circa il 30 per cento dei cittadini, si evince dal rapporto di Isfort, vorrebbe «diminuire l’uso dell’auto a fronte del 15 per cento che vorrebbe aumentarlo».

 

Il parco auto italiano ha superato di recente i 40 milioni di veicoli, ma un quarto ha più di 18 anni, tant’è che il consumo di carburante è identico da un decennio. Le auto si lasciano in garage. La dose annua di immatricolazioni è composta dal 25 per cento di noleggi a lungo termine. Il mercato nel 2023 si è ripreso con iniezioni poderose di incentivi statali: le nuove registrazioni di auto sono passate da 1,316 milioni a 1,567 milioni con +25 per cento per le ibride e +18 per cento per le ricaricabili. Nel 2024 si è esaurito già l’effetto elettrica e le ricaricabili, nonostante gli incentivi statali, perdono addirittura il 23 per cento. Inutile soffermarsi sugli indici di produzione e di fatturato per l’industria delle auto: segni negativi con ribassi anche a doppia cifra. La morale spetta di diritto al professor Deaglio: «L’aereo e il treno sono i mezzi di trasporto preferiti per i viaggi di piacere o di lavoro per la media e lunga distanza, l’auto privata diventa necessaria per il lavoro e per spostamenti entro un massimo di 500 km e poi a quale auto ci riferiamo? Tra affitti, noleggi, condivisioni, l’auto è una proprietà mobile e i produttori ci guadagnano più con la rendita finanziaria delle rate che conla vendita definitiva dell’auto. Io non dico che l’industria dell’auto scomparirà o cose del genere, intanto cambierà molto. Da un punto di vista tecnico già ce ne accorgiamo con questo tentativo di imporre l’elettrico. Questo l’indotto industriale lo capisce. Si potrebbe valutare di sfruttare l’indotto per l’aerospazio». Il professor Giuseppe De Rita, fondatore del Censis, i comportamenti degli italiani (e possiamo proiettarli in Europa) li conosce benissimo: «È una questione di successioni storiche. Nel senso che in Italia il simbolo di status è cambiato profondamente. Lo status è cominciato con la casa di proprietà, l’acquisto della casa, la ricostruzione della casa dopo la Seconda guerra mondiale ed è finita col telefonino. Questi sono i simboli di status attuali. Da allora la nostra Repubblica ha avuto tanti simboli. Abbiamo avuto il simbolo della seconda casa, del tinello separato dalla sala da pranzo, della cucina in formica. Se io ripenso alla mia vita vedo una serie di simboli di status che ci hanno segnato davvero. L’auto è stata uno dei più grandi e dei più duraturi simboli di status. Già negli anni ’50 mio padre desiderava la 600, e se l’è pure comprata. Oggi probabilmente mio padre non saprebbe cosa comprare, io stesso uso una macchina in affitto dell’ufficio perché non mi sembra che debba avere un simbolo di famiglia riflesso in una macchina particolare. È stato un grande ciclo quello dell’auto come simbolo di status, ma è diventato sempre meno importante. Non è che oggi noi rinunciamo alla macchina, la vogliamo avere, ma la usiamo il meno possibile, la usiamo in condivisione, usiamo il motorino, addirittura il monopattino. La caduta dell’auto non è soltanto una caduta industriale, è la caduta di uno dei grandi simboli di status del Dopoguerra. Questo giocattolo rotto è difficile da rimontare, non sono sufficienti né gli incentivi né gli accordi internazionali per sostenere l’auto europea. È arrivato il conto, rassegniamoci». Una parola di conforto deve provenire da Marco Stella, imprenditore e vicepresidente dell’Associazione nazionale filiera industria automobilistica, ma prima un rendiconto di coscienza: «C’è un tema che riguarda il consumatore. Ce ne siamo dimenticati, dico ce ne siamo: se ne è dimenticato il legislatore e in qualche modo se ne dimenticata l’industria. È vero che in questo momento il nostro è un mercato in gravissima difficoltà, però è anche vero che noi stiamo raccontando, da tanto tempo, tutta una serie di criticità e non stiamo raccontando le opportunità. È come se io le dicessi guardi, lei compra questa felpa, non le racconto il colore, il modello, la tendenza, le racconto che la deve lavare a secco in una certa maniera facendo attenzione, molta attenzione». Sta raccontando, per stare in equilibrio con le sue metafore e le sue iperboli, l’offerta dell’auto elettrica. «Sì, aspetti le aggiungo un discorso sugli incentivi statali. Lo Stato – replica Stella – dà un contributo per l’acquisto dell’auto elettrica, ma poi il resto – esigenze energetiche e logistiche – ricadono sul consumatore. L’incentivo rimane una strategia corretta. Va anche considerato che, nella situazione odierna, il rischio è quello di incentivare soltanto un prodotto importato e di non riuscire a incentivare l’adozione della tecnologia dei nuovi prodotti da parte delle classi meno abbienti come ci informano gli ultimi dati. Il governo europeo, unico nel panorama mondiale, se stabilisce che entro il 2035 bisogna azzerare le emissioni inquinanti di diesel e benzina e convergere su un’unica tecnologia, quella elettrica, non può lasciare il consumatore senza altre soluzioni e con tutte le incombenze». Il consumatore si arrangia, fa esperienza da sé. «Certo, si pensava che l’elettrico costasse molto meno, invece il costo di gestione è abbastanza elevato. Negli anni di massima diffusione del mezzo privato c’era l’utilitaria, una piccola macchina a prezzo contenuto che ti dava la possibilità di muoverti in libertà. Qui stiamo comunicando al cliente che, con una auto elettrica, prima di partire deve aprire l’applicazione, fare una minuziosa ricerca e pianificare un viaggio a tappe per capire dove e come ricaricare la batteria». Non più utile e comodo, ma semplicemente scomodo. «Per questo motivo va ricostruita la relazione col consumatore. Oggi non può che essere disorientato: non sa cosa acquistare e, se lo acquista, non sa come godere di quell’acquisto». Altro che auto desiderata, auto maledetta.