La battaglia delle persone trans affinché in classe non venga usato il deadname coinvolge sempre più istituti, superando i pregiudizi. Nell’assenza di linee guida del Ministero

Io porto sempre l’esempio di mio figlio, qui a Milano. Aveva quindici anni quando mi ha esplicitato il suo desiderio. Frequentava il Liceo Classico e non si sapeva quasi nemmeno di cosa parlassimo. Ma abbiamo portato avanti la nostra battaglia di civiltà, con i pareri dei giuristi e tutta la documentazione necessaria. E la gente, quando le cose gliele spieghi e ha a cuore il benessere degli studenti, capisce, apre la mente». Anna Maria Fisichella è vicepresidente nazionale di Agedo. In assenza di linee guida ministeriali, l’associazione di genitori, parenti e amici di persone Lgbt (attiva dal 1993) si è focalizzata anche sulle carriere alias, sostenendo le famiglie nell’iter. Restando in ambito scolastico, con questa definizione si intende un accordo di riservatezza tra la scuola, la persona trans e i suoi familiari se minorenne. Una procedura burocratica gentile, un profilo alternativo: nel registro elettronico, negli elenchi e negli altri documenti interni, viene inserito il nome scelto dalla persona in transizione al posto di quello anagrafico. Pur non possedendo un valore ufficiale, l’identità alias ha una forte valenza simbolica: un contravveleno al disagio, al disorientamento e al bullismo che attanagliano troppi giovani e giovanissimi. «Da allora sono passati quattro anni, mio figlio è all’università - aggiunge Fisichella - Era riuscito a ottenere la carriera alias nel suo liceo, tra i primissimi, e non c’è stato alcun tipo di problema per lui: è stato messo a suo agio, nella condizione di studiare al meglio, si è diplomato senza essere mai rimandato. Mio figlio è un ragazzo tranquillo, che vive felicemente i suoi anni, è pieno di amici. Perché dovremmo rendere le vite di questi ragazzi un inferno? Perché questa gogna contro quella che certi talk show chiamano “ideologia gender”?». Più del 40 per cento delle persone transgender tra i 12 e i 18 anni abbandonano la scuola anzitempo, spesso proprio per l’imbarazzo di dover “giustificare” l’incompatibilità acquisita col proprio nome (e pro- nome) anagrafico. E sono numerosi gli episodi di depressione e autolesionismo, quando non peggio. Attualmente sono 393 le scuole italiane che prevedono la carriera alias: 176 al Nord, 126 al Centro e 91 al Sud e nelle Isole. 

 

Negli ultimi tre anni, la sua adozione è cresciuta del 188 per cento: un’affermazione dei principi di autonomia, autodeterminazione e diritto allo studio. «Dobbiamo solo proteggere questi ragazzi, che sono come tutti gli altri - dice ancora a L’Espresso Anna Maria Fisichella - E a chi asserisce che prima non esistevano e adesso sono spuntati come funghi gli adolescenti transgender, noi di Agedo facciamo presente che prima se ne stavano nascosti o uscivano allo scoperto all’Università. Il battage pubblicitario che c’è stato, persino quello negativo, ha acceso i riflettori sulla questione. E i ragazzi vengono fuori subito». Altra considerazione da appuntare: se fino a tre anni fa ci si rivolgeva all’associazione al quarto o al quinto anno della scuola superiore, ora la richiesta arriva intorno al terzo anno, verso i 16-17 anni. E non mancano istanze già dalle medie, a partire dagli undici anni. «L’ostacolo principale è sempre l’ignoranza. Le maggiori resistenze si incontrano tra i professori. Ma tra i ragazzi no, conoscono bene le differenze tra orientamento sessuale e identità di genere». Vale sempre la pena ricordarlo: la varianza di genere non è una malattia (parola della stessa Oms) e nessuna certificazione medica o psicologica deve essere richiesta dalla scuola per accedere al percorso alias. Al resto dovrebbero provvedere una comu- nicazione rispettosa e la formazione ad hoc del personale docente e Ata.
 

Un capitolo a parte lo meritano le Università. Hanno iniziato prima e sono ormai numerosi gli atenei che assicurano questo diritto. L’alias compare sul badge-libretto universitario e nell’indirizzo mail istituzionale. E possono fruirne, oltre agli studenti, tutti gli appartenenti alla comunità accademica. Dal primo gennaio, per esempio, la carriera alias sarà disponibile per tutto il personale dell’Università di Bologna, compreso quello legato da un rapporto di lavoro temporaneo. Gli organi di ateneo hanno infatti esteso il servizio già attivo dal 2017: da allora, all’Alma Mater vi hanno fatto ricorso in 229. Un altro ateneo pioniere in materia è quello di Trento, tra i primi ad adottare il “doppio libretto cartaceo” per gli studenti in fase di transizione di genere. Stando ai dati aggiornati da Infotrans, sono 48 le Università che hanno attivato questo servizio. Perché può essere una tortura strisciante l’essere nominati per un ciclo scolastico o universitario con il proprio deadname, nome in cui una persona trans o non binaria non si riconosce più. E i primi segnali si vedono anche fuori dal settore dell’istruzione. Di recente, ne ha annunciato l’introduzione tra i suoi impiegati la Città metropolitana di Milano: «Un messaggio chiaro contro ogni discriminazione e volto a creare un contesto lavorativo inclusivo, in cui tutte e tutti si sentano accolti e rispettati. Una piccola rivoluzione culturale» ha commentato Diana De Marchi, consigliera alle Pari opportunità. Molti muri sono crollati, nonostante i tentativi di cancellare o ridimensionare quest’opzione: soprattutto in una nazione, come la nostra, nella quale il cambio di identità anagrafica resta tortuoso e ancorato a una legge inevitabilmente invecchiata, la 164 del 1982. Legge che pure era entrata in vigore dopo anni di lotte. «Le persone transgender esistono, sono sempre esistite e sempre esisteranno – conclude Anna Maria Fisichella - Non è che negando loro la carriera alias spariranno. Semplicemente, vivranno peggio».