Va verso l’archiviazione l’eccidio del 2021 nella Repubblica democratica del Congo. Eppure la tesi del raid casuale non regge. L’ambasciatore ucciso era spiato

Si avvicina l’archiviazione dell’inchiesta della procura di Roma sull’uccisione dell’ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci, vittime di un agguato nella Repubblica democratica del Congo assieme all’autista del World food programme Mustapha Milambo il 22 febbraio del 2021. Il pm, il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco, sarebbe orientato a chiudere il fascicolo relativo alla dinamica, ai mandanti e agli esecutori del triplice delitto. Le indagini non sono riuscite a chiarire molte incongruenze e, nonostante le domande irrisolte, non sembrano esserci i presupposti per proseguire. Numerose le dichiarazioni che attestano come fosse proprio il diplomatico italiano l’obiettivo dell’imboscata. E nella stessa direzione anche la testimonianza del magistrato militare che per primo aveva indagato sulla vicenda, riportata da L’Espresso. Dai racconti è emerso anche che Attanasio sospettasse di essere spiato. Un timore che non aveva condiviso con i familiari ma manifestato ai carabinieri della sua scorta. Un sospetto suffragato anche dalla denuncia - riportata anche nel libro di chi scrive, “Le verità nascoste del delitto Attanasio” - del carabiniere Luigi Arilli, uno degli addetti alla sicurezza dell’ambasciatore. Nel marzo del 2021 il militare aveva riferito ai colleghi del Reparto operativo speciale di un tentativo di accesso a uno dei telefoni in dotazione a Iacovacci, un iPhone che lo stesso Arilli aveva prestato all’altro elemento della scorta di Attanasio. L’intrusione telefonica sarebbe stata tentata da qualcuno localizzato nella prefettura di Kigali, in Rwanda. Ma chi e perché aveva interesse a spiare i movimenti e le comunicazioni di un rappresentante delle istituzioni italiane, sia pure in un territorio difficile come la Repubblica democratica del Congo?

 

Una chiave di lettura risiede nelle anomalie sul rilascio dei visti, una pratica che Attanasio aveva scoperto e contro la quale intendeva agire. Ma la mancanza di progressi significativi negli accertamenti, a quasi quattro anni dall’agguato, è destinata a lasciare una coltre di mistero su ciò che è davvero avvenuto sulla “Route Nationale 2” che da Goma si estende fino a Rutshuru, meta del convoglio del World food programme. Anche sulla stessa pianificazione del viaggio restano interrogativi, con buchi nella catena di trasmissione delle informazioni necessarie a predisporre l’apparato di sicurezza per la missione. E c’è poi il presunto tentativo di manomissione dell’agenda condivisa di Attanasio. Un indizio concreto è dato dal fatto che dopo l’omicidio dell’ambasciatore sia giunta una notifica che cancellava un impegno legato al viaggio, con la successiva apparizione dell’appuntamento reinserito. Evidentemente qualcuno aveva un interesse diretto a oscurare o alterare la cronologia degli eventi. Neppure le verifiche condotte dall’Aise hanno prodotto risultati. Non sono riuscite ad accertare con sicurezza quanto dichiarato dagli abitanti del posto dove è avvenuto l’agguato. Secondo loro, all’arrivo del convoglio, gli assalitori erano già sul luogo, il villaggio di Kikumba, come se fossero a conoscenza dei movimenti del diplomatico. Dunque, non si sarebbe trattato di un raid improvvisato per un sequestro a scopo di rapina, come da verità ufficiale, ma di un agguato pianificato. Perché anche la tesi del conflitto a fuoco seguito al tentativo di rapimento viene smentita dalla perizia balistica presentata dall’avvocato di parte, Rocco Curcio, legale della famiglia Attanasio. Ed evidenzia come i rilievi e le analisi di laboratorio attestino che la traiettoria dei proiettili esplosi contro Attanasio e Iacovacci fossero compatibili con una vera e propria esecuzione.

 

Il muro di gomma contro il quale ci si è scontrati in questi anni ha impedito significativi passi avanti per sciogliere i nodi irrisolti, dalle preoccupazioni dell’ambasciatore alle discrepanze nei dettagli organizzativi del viaggio, dalle manomissioni ai tentativi di intrusione nei sistemi informatici. Troppe le omissioni delle autorità locali e le mancanze, inaccettabili, anche delle nostre istituzioni, che non hanno fornito elementi che avrebbero potuto rivelarsi decisivi per squarciare il velo di ambiguità che circonda la morte di Attanasio, Iacovacci e Milambo. Se tutto viene ricondotto a un’azione predatoria finita nel sangue, non è credibile che di questo rischio non ci fosse piena consapevolezza nell’allestire la trasferta dell’ambasciatore in una zona contesa sia da bande di criminali che spadroneggiano lungo il confine, sia da miliziani fuori controllo e da jihadisti che colpiscono chiunque graviti nella sfera di loro controllo. Nei confronti di Attanasio sembra essersi realizzato un delitto perfetto, agevolato da un dispositivo di sicurezza del tutto inadeguato. Difficile credere a «una leggerezza» che ha portato alla sottovalutazione del pericolo. Chi ha organizzato quel viaggio aveva tutti gli elementi per sapere che si trattava di una missione in area ad altissimo rischio. A frapporsi alla verità c’è anche il precedente che ha dato un colpo di spugna al primo troncone dello sviluppo giudiziario di questa storia. Nel febbraio scorso, il giudice dell’udienza preliminare Marisa Mosetti ha disposto il non luogo a procedere per due funzionari del Wfp accusati di omesse cautele e omicidio colposo proprio in relazione all’organizzazione della trasferta. Una pietra tombale su un aspetto della ricostruzione del delitto che ha inevitabilmente compromesso anche gli sviluppi intorno al secondo fascicolo. Con il risultato che l’unica verità giudiziaria destinata a rimanere in piedi è quella che riconduce la misteriosa fine di Attanasio a un evento criminale ordinario. Ma quella storica dice tutt’altro.