Il ritratto
Gennaro Sangiuliano è la quintessenza del melonismo
Nomine, gaffe, finanziamenti altrui, microfoni strappati. Il ministro della Cultura è il simbolo di questo governo. Lamentoso, permaloso. E famelico
Un anno non passa invano: e così trascorso un anno (e tre mesi) dalla sua ascesa al trono del ministero della Cultura, si può dire con certezza ciò che un anno fa si poteva solo supporre. È Gennaro Sangiuliano la quintessenza pretenziosa e sussiegosa, permalosa e gassosa, la ciliegina sulla torta di questo governo lamentizio e vago, «non ricattabile» senza che si capisca da chi, fortissimo nell’occupazione, scarso nella realizzazione, «famelico e sbrigativo», come ha scritto Giovanni Orsina su La Stampa, fotografando un’epoca con un’endiadi.
A riassumere Sangiuliano, l’uomo che ha in Giuseppe Prezzolini la sua coperta di Linus, non basta (ma aiuta) la lista infinita di prese di posizione, e gaffe, e rivendicazioni, e smentite, e battibecchi, e microfoni strappati, e microfoni ripresi. Io sono antifascista e anche anticomunista e tu? Un attivismo mai domo, che stanca e sfinisce le pile a zinco-carbone, come nel vecchio spot delle Duracell. Molto prima di Dante «fondatore del pensiero della destra» e dell’intuizione geniale per una fiction su Oriana Fallaci in realtà mandata già in onda, nelle prime settimane del governo correva di bocca in bocca la singolare scelta del ministro di poggiare al lato della scrivania che fu di Giovanni Spadolini (ma anche di Sandro Bondi) un bello schermo televisivo acceso. E l’usanza di zittire l’ospite di turno nel caso in tv andasse in onda una sua propria intervista: «Aspetta un momento, adesso ci sono io». Il ministro Sangiuliano che guarda il ministro Sangiuliano, seduto nella stanza del ministro Sangiuliano. Un gioco di specchi micidiale, un pensiero che pensa sé stesso, una vertigine quasi gentiliana. Ed era appena l’inizio: solo dopo avrebbe attualizzato il già-non ancora di Heidegger, dicendo nella serata di premiazione dello Strega che avrebbe «provato a leggere» la cinquina di libri che, da membro della giuria, doveva aver letto.
L’ultima vicenda che l’ha portato sui giornali è quella relativa alla nomina da parte della destra meloniana, col favore delle tenebre in pieno stile grillino, di Luigi De Fusco a direttore del Teatro stabile di Roma. Roberto Gualtieri, pur furioso per il blitz, l’ha però scagionato: «Avevo concordato col ministro un percorso condiviso, nel metodo e nel merito», ha specificato il sindaco di Roma. E c’è da credergli. Perché Sangiuliano, come ha mirabilmente riassunto lui stesso da Bruno Vespa nella prima immortale intervista tv da ministro, ha in orrore il cancellare, il sostituire: lui vuole aggiungere. Aggiungere. Sempre aggiungere. O al massimo, a stare al caso De Fusco, sostituire sì, ma allargando. «Permettere anche a chi non fa parte dell’amichettismo di lavorare nella cultura», ha detto. Laddove la parola chiave è «anche». Senza il ma. Come per Antonio Gramsci, «perseguitato dai fascisti» e anche «isolato dai comunisti». Più che veltronismo: una bulimia.
E infatti come allungando le mani famelico su un vassoio ricolmo di pastarelle il ministro tende a rivendicare come proprio anche ciò che hanno fatto gli altri: è il caso dei 20 milioni per Paestum, erogati nel 2016 all’epoca di Dario Franceschini. «Dopo decenni di inerzia, il ministero sta dando impulso a notevoli iniziative», dice adesso Sangiuliano, come se la riapertura del museo e la riqualificazione dell’ex stabilimento Cirio fossero sue decisioni, e non scelte altrui di cui raccoglie solo i frutti.
E del resto la figura retorica di Sangiuliano è l’apposizione, l’aggiunta, l’affastellamento. Magari la polemica ma, si badi, mai un filo di vera dialettica: perfetta incarnazione del melonismo, Sangiuliano è infatti allergico a tutto ciò che è irregolare, fuori linea, potenzialmente in grado di fargli ombra o creargli problemi. Non è un caso che in tanta penuria di uomini di cultura a destra, non abbia trovato spazio chi gode di stima trasversale, come Giordano Bruno Guerri o Umberto Croppi. «Il ministro delle cerimonie», l’ha soprannominato infatti Vincenzo De Luca per prenderlo in giro. Dei nastri, delle formulette. Ha orrore del politicamente corretto, che lui chiama «dittatura» – mentre per dire Mussolini lo descrive invece come un «socialista massimalista» – perché è un atteggiamento che chiede di togliere via qualcosa, mentre Sangiuliano che ama lo spirito e la libertà ha detto da subito «no a qualsiasi spoils system»: «Io voglio aggiungere altre sensibilità».
In effetti è quello che Sangiuliano ha sempre fatto dentro di sé: no spoils, piuttosto system. Ne è testimone l’Era in cui al “Tg2 post” ospitava chiunque avesse fame di mezz’ora di notorietà, riempiendo così i suoi cassetti di metaforiche note di credito trasversali, che ancora non ha finito di riscuotere. Questa sì che è la cultura: «La pluralità». Fuori e dentro di sé. Militanza giovanile nel fronte della gioventù, consigliere circoscrizionale a Soccavo (Napoli) negli anni Ottanta, in giro con il segretario missino Giorgio Almirante fin da ragazzino (foto antiche in Rete, pare ne abbia un’altra esposta sulla libreria, celebre quella di una tavolata a Napoli in cui quasi tutti sfoggiano capigliature oggi invidiabili), Sangiuliano è stato anche (anche) portaborse e tardiva creatura di Franco De Lorenzo, ministro della Sanità poi travolto da Tangentopoli: lavorò a Canale 8, diresse l’Opinione del Mezzogiorno, fu nella redazione di “Economy”, giornali considerati vicini all’allora leader del Pli. Tatarelliano dalla seconda metà degli anni Novanta, quando diresse il “Roma”, quindi vicino a Maurizio Gasparri e Italo Bocchino nei primi Duemila, collaboratore de “L’Indipendente”, poi via via anche sempre più berlusconiano, vicedirettore di “Libero” con Vittorio Feltri, tra il 2009 e il 2010 si buttò dalla parte giusta della storia nella parabola di Gianfranco Fini: un momento prima ne tesseva le lodi nemmeno si fosse trattato di padre Dante («Ecco la persona che incarna la storia della destra italiana»), un momento dopo l’abbandonava decretando in prima pagina su “Libero”: «Calpesta i valori della destra». Amico di Mario Orfeo, che all’epoca dirigeva il Tg2, fu quindi vice di Augusto Minzolini al Tg1 quando si trattava di gestire l’affaire della casa di Monte Carlo. Breve periodo buio e poi, pimpantissimo, eccolo nel 2018 presentarsi come homo novus («Piacere, mi chiamo Gennaro Sangiuliano») tra i divanetti di Montecitorio ai Cinque Stelle: da quelle parti in effetti non lo conosceva ancora nessuno; e i grillini, all’epoca, non avevano nessuno da piazzare in Rai. Raccontano nel cerchio di Giorgia Meloni, dove è più sopportato che amato, di averlo visto una volta all’opera, secondo uno schema che dobbiamo immaginare ripetibile all’infinito: incontrato per caso Luigi Di Maio in un bar, Sangiuliano fu lestissimo ad estrarre dal suo zainetto, come una spada Jedi, la biografia più adatta al pentastellato, scegliendola accuratamente tra le sue varie che sempre portava con sé (ha scritto diciotto libri, uno pure su Lenin a Capri).
Anche come biografo, del resto, il ministro ha sempre brillato per rapidità di rimodellamento al contesto: l’unica volta in cui sbagliò, inspiegabilmente, fu con Hillary Clinton; il libro su di lei uscì subito dopo che aveva perso le elezioni, ma Sangiuliano fu lesto anche in quel caso. Appose infatti la fascetta con su scritto: «Ecco perché ha perso». E l’intera operazione cambiò di segno.
A proposito di stagioni cangianti, la biografia che gli hanno più rimproverato è quella su Putin, “Vita di uno zar”, che pure quando uscì gli valse il perfetto allineamento con il suo futuro prossimo: la Lega salviniana e la direzione del Tg2, quando il governo si fondava su un asse tra i filo-russi della Lega e i filo-russi del Movimento Cinque Stelle, con presidente della Rai il commentatore di Russia Today Marcello Foa. Era l’epoca in cui Sangiuliano trasmetteva servizi sul Natale ortodosso a Mosca e le conferenze di fine anno del presidente russo, spiegava che «Putin ha dato identità, orgoglio, visione e progetto a un Paese che era umiliato e disastrato», e naturalmente che «la Crimea è sempre stata russa». Poi ha cambiato idea: «La Crimea dovrebbe tornare nella sovranità di Kiev». Niente di male: togli la Crimea, metti la Crimea, l’antitotalitarismo alla Karate Kid.
Nel 2019, l’ascesa dei Fratelli d’Italia bastò a fargli sentire potente il richiamo di casa, dove naturalmente è stato riaccolto. Nonostante l’intermezzo in cui si è fatto super-draghiano, omaggio allo Zeitgeist e alla necessità di restare piantato al Tg2. Fino al Mibac, che per lui è il «sogno che si avvera», ma non necessariamente l’ultimo: «Negli Stati Uniti conta tanto il segretario di Stato o alla Difesa perché è una superpotenza militare, noi siamo la prima superpotenza culturale del pianeta, il ministro della Cultura conta tantissimo», ebbe a dire in quei giorni. Anche Giovanni Spadolini, d’altra parte, dopo la Cultura ascese alla presidenza del Consiglio, quindi chissà.
Vari ostacoli si frappongono all’ulteriore ascesa: al momento il più tosto si chiama Vittorio Sgarbi. Sottosegretario alla Cultura, in polemica dal primo giorno, protagonista in estate di una dimenticata bagarre al Maxxi dove disse frasi alla Bandecchi, ora al centro della scena per quella storiaccia di quadri rubati e copie, vive da separato in casa col ministro. E ora che si avvicina Sanremo, alcuni prevedono che tra i due possa presto finire come finì nel 2020 tra Morgan e Bugo. Con Morgan che canta insulti in diretta nazionale e Bugo che pianta tutto e se ne va. Il problema è che dal ministero non se ne vuole andare nessuno.