Il capo di Forza Italia vorrebbe alla presidenza della Commissione Europea la maltese Metsola al posto di Von der Leyen. Dal patto con il tedesco Weber al modo per tenere fuori Draghi: ecco tutti i dettagli

Qui si vuole innanzitutto rassicurare collaboratori spaesati e ammiratori a vario titolo. Nel tempo che resta, e non è una citazione decorativa del filosofo Giorgio Agamben, con diligenza Antonio Tajani fa il ministro degli Esteri e lo fa assimilando velocemente nozioni per assolvere il compito dinanzi a taccuini e telecamere, a volte meglio, a volte peggio. È spigliato, essenziale, perentorio. Nel tempo pieno, però, Tajani fa lo stratega politico. Un attimo. Lo stratega politico è un’occupazione troppo diffusa. Come l’influencer. Ecco: Tajani fa il demiurgo. È l’artefice di cose che accadono e cose che possono accadere. In questi anni, agevolato da una solida formazione monarchica, Tajani ha affastellato una serie di incarichi. Se ne fornisce un elenco parziale aggiornato al mese di aprile: non è soltanto ministro degli Esteri e vicepresidente del Consiglio, ma è segretario di Forza Italia e vicepresidente del Partito popolare europeo (Ppe). Sappiate che gradisce essere chiamato presidente, formalmente non è presidente di nulla, ma per prudenza il nostro è un elenco parziale, lo ribadiamo, e probabilmente è davvero presidente o sta per diventare nuovamente presidente e s’è portato avanti con i biglietti da visita. Allora torniamo al discorso di stratega politico. Scusate, demiurgo certo, demiurgo. Tajani è impegnato con le candidature di Forza Italia e ovviamente ha offerto subito prova di grande acume candidando sé stesso. Con speciale discrezione, e adesso il racconto si fa serio, se possibile, Tajani lavora per Roberta Metsola, da un biennio presidente del Parlamento europeo, alla guida della Commissione europea. Questa è una operazione internazionale con equilibri e intrighi che meritano di essere snocciolati con particolare attenzione. Potrebbe elevare Tajani a un livello superiore di demiurgo. Oltre ogni limite. Per ogni ambizione.

 

 

Il congresso del Partito popolare Europeo, lo scorso marzo a Bucarest, ha approvato la candidatura di Ursula von der Leyen per un secondo mandato di presidente della Commissione europea. Quattrocento favorevoli, ottantanove contrari. Un voto previsto, non un voto unanime. Un piccolo segnale. Un sottile messaggio. Non ci sono firme in calce a questa manovra. Se ci fossero, una sarebbe di Manfred Weber, capogruppo del Ppe nonché presidente del Ppe. Weber è il negativo tedesco di Tajani. Lui era l’ologramma di Angela Merkel in Europa, l’amico Antonio lo era di Silvio Berlusconi. Un veto di Emmanuel Macron, cinque anni fa, impedì a Weber di ottenere la Commissione europea. Poi la coppia Macron e Merkel inventò Von der Leyen e la maggioranza tricolore fra Popolari, Socialisti, Liberali. Weber non ha dimenticato. Tajani ha ricordi neutri di von der Leyen e una scarsa conoscenza diretta, però Roberta Metsola è indubbiamente un suo prodotto. La maltese Metsola, su spinta di Weber e Tajani, fu eletta vicepresidente vicaria del Parlamento al posto dell’irlandese Mairead McGuinness (promossa commissaria europea) e ottenne la presidenza dopo la tragica scomparsa di David Sassoli. Metsola è talmente riconoscente a Tajani o in sintonia con Tajani che ne ha ereditato pure gli assistenti. Ha scelto Angelo Chiocchetti come capo di Gabinetto e poi, con una forzatura quantomeno di stile, lo ha imposto segretario generale del Parlamento europeo. «Un fiore all’occhiello per il nostro Paese. Bene per l’Europa che funziona. È in buone mani», così Tajani ha celebrato Chiocchetti, che a metà degli anni Novanta sbarcò a Bruxelles assieme ai primi eurodeputati di Forza Italia e cioè assieme a Tajani.

 

Von der Leyen è la soluzione più semplice e ancora più concreta per la Commissione europea, ma le elezioni di giugno si avvicinano e la sua figura si usura, per l’inchiesta sul contratto con la Pfizer, per le esitazioni in politica estera, per il crescente ostracismo fra i popolari tedeschi e non unicamente tedeschi. Un bravo demiurgo, e Tajani avverte il peso del suo valore, pianifica il domani in anticipo. Metsola ha dei limiti strutturali. Malta ne è uno. È il membro più piccolo. Anche il portoghese José Barroso e più di recente il lussemburghese Jean Claude Juncker non erano esponenti di grossi Stati, ma erano ex primi ministri e Juncker lo era quasi a vita. Invece Metsola non ha amministrato mai niente. È avvocata di professione e politica di mestiere. Non potrebbe reggere il confronto con altri colleghi popolari in corsa, peraltro primi ministri, il croato Andrej Plenkovic e soprattutto il greco Kyriakos Mitsotakis. Metsola non è un auspicio di Tajani per misurare il suo potere, non ce ne sarebbe bisogno, non cede a sterili vanità, è lo strumento per coinvolgere davvero in Europa la presidente Giorgia Meloni e il suo eterogeneo gruppo di Conservatori. In una situazione post voto con von der Leyen traballante, il Partito popolare europeo potrebbe cambiare candidato e puntare su Metsola per tenere compatta l’alleanza con Socialisti e Liberali e strappare una facile adesione dei Conservatori. Tajani potrebbe offrire a Meloni il privilegio di porre il sigillo su Metsola presidente della Commissione europea, donna, giovane, che parla italiano. Un doppio risultato con un colpo. L’altro risultato sarebbe l’automatica esclusione di Mario Draghi da qualsiasi competizione europea. Con la Commissione affidata a un europeo del Sud, il Consiglio europeo – indicazione che spetta ai capi di governo e riguarda un ex capo di governo – andrebbe a un europeo del Nord (un socialista). Una maniera felpata, perfettamente italiana, per dire no a Draghi senza dire no a Draghi. Che è il desiderio non nascosto del governo Meloni. Con questa operazione internazionale il demiurgo (agente) Tajani acquisirebbe da Meloni un credito inestimabile da riscuotere, secondo le sue sconfinate aspirazioni, in occasione del prossimo settennato al Quirinale.

 

Al momento Tajani più che a fare candidature ha contribuito a disfare candidature. Quella di Draghi, per esempio, proprio al Quirinale. Non ha mai tollerato l’esclusione dal governo tecnico. La trovava inconcepibile. Un’offesa al suo prestigio. E col suo fidato Sancho Panza, il capogruppo forzista Paolo Barelli, il duo s’è ricomposto dopo qualche incomprensione, Tajani è pronto a sfidare le leggi del mondo. A incoronare Metsola alla Commissione europea appiedando Draghi, a immaginare sé medesimo alla presidenza della Repubblica e nel frattempo, nel tempo che resta, a spargere sapienza di qua e di là. Tajani è un po’ come Jerry Ostero, un personaggio di un racconto di Italo Calvino, che sapeva entusiasmarsi con poco. Partito con l’intento di fidanzarsi con una ragazza in un incontro catartico, strappato un mezzo bacio, all’amico che l’aspettava disse: «Il più è fatto».